Al netto della scontata bravura di Toni Servillo (e di quella di Pierfrancesco Favino, relegato peraltro in un ruolo marginale ed insolitamente spento…), si può dire che questo “Le confessioni” di Roberto Andò sia un film riuscito?
Andò ebbe come mentore, agli inizi della carriera, Leonardo Sciascia, ed è perciò inevitabile il paragone con la celebre trasposizione cinematografica, datata 1976, del romanzo sciasciano “Todo modo”per la regia di Elio Petri.
La presenza in questo film di un personaggio, impersonato da Gian Maria Volonté, simbolo della crudele ipocrisia del potere e provocatoriamente simile come una goccia d’acqua ad Aldo Moro, scatenò polemiche all’epoca della sua uscita e più ancora due anni dopo, quando l’uomo politico venne rapito e giustiziato delle Brigate Rosse. E non v’è dubbio che il (finto) ritiro per esercizi spirituali in cui si ambienta “Todo modo” somiglia parecchio alla riunione del G7 che fa da sfondo al film di Andò.
Le due storie hanno in comune un sottofondo “giallo”: in “Todo modo” una catena di misteriosi delitti che turbano il pio convegno di alti papaveri, in “Le confessioni” il suicidio sospetto di un esponente di punta della finanza mondiale che cala come un fulmine a ciel sereno sul consesso politico-finanziario.
Soprattutto le due pellicole condividono il risvolto religioso: “Le confessioni” sono dominate dalla singolare figura di monaco, interpretato da Servillo, apparente pesce fuor d’acqua che, invece, finisce per rivelarsi motore della vicenda.
Le somiglianze finiscono qui.
Andò, infatti, segue una strada opposta a quella di Petri. Mentre il regista romano, maestro nel film di denuncia, fece di tutto per agganciare alla concreta realtà storica il “thriller metafisico” scritto da Sciascia, il cineasta palermitano lavora per rarefare il contesto.
Quest’opera di astrazione è perseguita con coerenza stilistica , attraverso una scenografia abbastanza dimessa ( l’albergo del summit finisce per dar l’idea di un malinconico hotel in bassa stagione…), e una fotografia dai colori sbiaditi, in cui trionfa la bianchissima tonaca di padre Salus. Il ritmo è lento e la recitazione degli interpreti insolitamente pacata e sotto tono. Tutti i personaggi, a parte il monaco e il suicida, comunicano una sensazione di spaesatezza e inconsistenza.
Un G7 lo si immagina più frenetico e chiassoso, perché chi vi partecipa non ha tempo da perdere e le decisioni da prendere ( o da rimandare…) urgenti e concretissime. Quello del film è sospeso nell’ozio triste e noioso di una villeggiatura di mare in autunno. La pressione del mondo fuori, benché debba essere enorme, neppure si sente, limitandosi all’ingresso non autorizzato di due manifestanti nude, subito catturate dal servizio di sicurezza.
Il messaggio di Andò, mettere sotto scacco le aride e ingiuste regole dell’economia internazionale, insinuando il dubbio di un possibile ( o doveroso) “umanesimo finanziario” in cui il denaro non sia un totem ma un semplice strumento, passa.
Ma, alla fine, rimane un senso di incompletezza. La sceneggiatura lascia irrisolti i nodi principali: qual è il motivo scatenante del ” suicidio” del Presidente del Fondo Internazionale? in cosa consiste la durissima “manovra” da varare? che significato ha la presenza inedita di un religioso ? di che cosa è portatore padre Salus, che sembra più rivolto al Cielo che alle miserie terrene?
Lo spettatore non saprà mai se sta assistendo all’indicazione di una via d’uscita dai mali della “globalizzazione” o alla disperante constatazione della loro ineluttabilità.
Rino Casazza