Sono passati quattro mesi dalle elezioni in Spagna, non è stata trovata nessuna effettiva soluzione di governo e il 26 aprile 2016 il capo di Stato, re Felipe VI, ha ufficializzato ciò che quasi tutti ormai si aspettavano: il 2 maggio saranno sciolte le camere e il 26 giugno si terranno nuove elezioni. La campagna elettorale è ripartita, anzi, si può dire che stesse già cominciando prima ancora dell’annuncio di Sua Maestà.
Ho già parlato dei retroscena storici in un articolo precedente, qui mi limito a riassumere la situazione all’indomani del voto del 20 dicembre 2015. Gli elettori spagnoli hanno concesso la maggioranza relativa al Partido Popular, la formazione di centro-destra (se per destra si intende, ovviamente, il franchismo) del presidente del Consiglio uscente Mariano Rajoy, al governo dal 2012. Ma nel contempo gli spagnoli hanno espresso con ancora maggiore forza una volontà di cambiamento, dividendosi però tra una possibilità di alternanza con il Partido Socialista Obrero Español (di fatto socialdemocratico) con alla testa Pedro Sánchez; e due nuove formazioni: al terzo posto con lieve scarto rispetto al PSOE, il movimento Podemos, figlio degli indignados, il cui esponente più visibile è Pablo Iglesias; e Ciudadanos, orientato sul centro-destra ma alternativo al PP, con alla testa Albert Rivera.
I numeri non erano favorevoli a Rajoy, che ha subito declinato l’incarico da parte del sovrano di formare il nuovo governo. Il compito è quindi passato a Sanchez del PSOE, che da febbraio a qualche giorno fa se l’è dovuta vedere con il problema che il rivale del PP ha astutamente schivato: il labirinto che si è creato dopo le elezioni.
Rajoy ha assunto il ruolo di osservatore, limitandosi a proporre una Grande Coalizione con il PP che nessuna delle altre tre entità in gioco poteva accettare, dato che tutti gli altri partiti si dichiarano contrari a un nuovo governo con a capo il presidente uscente. Si dichiarano, perché così come gli indignados furono da sinistra i maggiori responsabili della caduta del socialista Zapatero e dell’ascesa al potere della destra, ora Podemos è uno dei motivi principali per cui la destra prolungherà il suo governo ad interim almeno fino a giugno, vale a dire altri sei mesi dopo le elezioni dello scorso dicembre.
Ma in realtà, probabilmente, come minimo fino ad agosto, calcolando i tempi tecnici per la formazione di un ipotetico nuovo governo. Di nuovo, questo movimento politico – che di sicuro ha sottratto milioni di voti ai socialisti – si rivela il maggior benefattore di Mariano Rajoy.
Il fatto è che dopo le lezioni il PSOE non poteva raggiungere un sostegno numerico sufficiente alleandosi solo con Ciudadanos, per quanto ci abbbia provato, malgrado il diverso orientamento politico. In sostanza, nulla poteva essere raggiunto senza la partecipazione di Podemos, che invece rifiuta la presenza di Ciudadanos. Tuttavia, se tra il PSOE e Podemos ci sono moltissimi punti di vista in comune sul potenziale governo progressista auspicato da molti spagnoli, ci sono alcuni aspetti su cui il nuovo movimento non vuole discutere. Tra questi, inaccettabile dal punto di vista della Costituzione spagnola, è la questione catalana: il vero motivo per cui la Spagna non ha potuto avere un nuovo governo.
Podemos ha ottenuto tanti voti il 20 dicembre non solo perché si è presentato come forza alternativa ai vecchi partiti, ma anche perché ha strizzato l’occhio ai movimenti indipendentisti di varie regioni della Spagna e, in particolare quello catalano. Il paese è infatti diviso in governi regionali dalla forte autonomia (salvo quando si tratta di incassare fondi economici dal governo centrale di Madrid… e da questo punto di vista sembra che la ricca e internazionale Catalogna sia solo al secondo posto dopo la meno opulenta e più isolata Andalusia). Al potere a Barcellona c’è un governo indipendentista eletto dai catalani alla fine del settembre 2015, che preme per un referendum che comporterebbe l’uscita della Catalogna dalla Spagna e quindi dall’Europa, dall’area Schengen e dall’euro.
Visto l’entusiasmo con cui i catalani si sono tuffati elettoralmente in questa direzione, un referendum porterebbe con tutta probabilità alla vittoria del secessionismo, con un bagaglio di conseguenze di cui forse la popolazione locale non si rende ancora conto. E non si tratta solo di dover passare a un dinaro catalano (o come vorranno chiamare la loro moneta) o del fatto che il Barça non dovrebbe più confrontarsi nella Liga spagnola con il Real Madrid o l’Atletico Madrid, bensì con le squadre parrocchiali dell’Empordà in un campionato autonomo catalano già vinto in partenza.
Si tratterebbe anche di un inasprimento della discriminazione già in atto da anni nei confronti della popolazione di lingua spagnola (e di cultura spagnola o ispanoamericana). Vorrebbe dire anche una maggiore aggressività del catalanismo che ha già invaso le regioni limitrofe: ho sotto gli occhi l’esempio delle Isole Baleari, con la repressione di fatto delle lingue locali (di origini comuni, ma non coincidenti con il catalano) e l’imposizione in atto da decenni del catalano in funzione antispagnola, con il già dichiarato obiettivo di un anschluss di tutti i territori già occupati sul piano linguistico. Ricordo già trent’anni fa su un muro di Maiorca una scritta profetica che affermava Abbasso la dittatura catalanista. Il 23 aprile 2016, in occasione della festa di Sant Jordi, patrono di Barcellona, che coincide con la Giornata del Libro e, nella fattispecie, del quattrocentesimo anniversario della morte di Miguel Cervantes – scrittore in lingua spagnola – il president della Generalitat de Catalunya Carles Puigdemont ha invocato la necessità di difendere la lingue e cultura catalane dalle numerose minacce – i draghi, ha detto, usando la metafora di San Giorgio – che le perseguitano. Forse si riferiva a tutti coloro che avrebbero amato la cultura catalana, se non fosse stata loro imposta con la prepotenza.
Sia ben chiaro: Pablo Iglesias di Podemos ha dichiarato di non essere favorevole all’uscita della Catalogna, ma di voler difendere a tutti i costi il referendum. Ovvero: di non perdere i voti dei secessionisti, non solo catalani, che potrebbero dare origine a un effetto domino dopo un’eventuale uscita di Barcellona. In sostanza la Spagna si gioca ben di più di un problema di governo: la sua stessa esiatenza e integrità come paese europeo. Ma se dalle urne del 26 giugno uscirà, come possibile, una replica del 20 dicembre, l’instabilità è destinata a continuare.
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