Sono passati abbastanza giorni perché se ne possa parlare.
Abbastanza per non essere più simpatizzanti, sostenitori, appassionati dello straordinario Belgio.
Siamo alle solite.
Abbiamo sempre considerato Bruxelles come una “città politica”, il luogo adibito alle decisioni. La tana dell’ipocrisia, per tanti.
Ad un tratto, sbattuti giù dal letto dal peso di trentacinque cadaveri, ci siamo stretti al dolore delle vittime, dei parenti delle vittime, dei sopravvissuti, dei testimoni imbiancati. Ci siamo schierati a difesa della democrazia e della giustizia.
Un’altra volta “Je suis”.
In realtà del Belgio ce n’è sempre importato poco. Non è un luogo turistico, nell’immaginario comune non è la culla di nulla, non sa di etnico o straniero. Sa di uffici e Salvini.
Già…
L’immagine perfetta di quest’Italia è proprio Salvini, cellulare in mano davanti alle macerie e partecipazioni televisive a raffica, per raccontarsi, per schierarsi, per cacciare voti impauriti.
Su Facebook ogni foto profilo, quando ci fu l’attentato a Parigi, si tinse dei colori della bandiera francese.
“Je suis Paris”, abbiamo mentito.
Gli odiati cugini francesi, tutto a un tratto, sono diventati fratelli. Nel frattempo in Egitto morivano centinaia di civili ma noi eravamo troppo impegnati a cercare una foto adatta da abbinare ai nuovi colori.
Quando ci fu l’attacco alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo, nel gennaio dello stesso anno, ne discussi con un commerciante egiziano, di fede musulmana, ormai milanese d’adozione.
“E’ una cosa tremenda e criminale” disse scuotendo il capo “Ma bisogna stare attenti a non cadere in un altro errore.”
“In che senso?” gli chiesi.
“Hai mai visto quelle vignette? Non fanno ridere. Io le ho viste, anche quelle che non sono uscite adesso, dopo gli attacchi. C’è Maometto che sodomizza un bambino, che si masturba in pubblico. C’è una continua ricerca della provocazione alzando ogni volta di più l’asticella. Lo ripeto, chi ha organizzato e portato a termine quegli attacchi è un pazzo, ma in qualche modo posso anche trovarne una piccola giustificazione.”
Era un ragionamento comprensibile da parte di un credente “moderato”.
Ma non era il nostro problema.
“Je suis Charlie”.
Persino io feci l’errore di esaltare una di quelle vignette satiriche inneggiando alla libertà di stampa. Rivedendole oggi, a distanza di oltre un anno, devo ammettere che non erano poi così divertenti.
Facciamo una scommessa?
Se io dovessi chiedervi: dov’eravate esattamente quando avvenne l’attacco alle torri gemelle dell’11 Settembre 2001?
Sono sicuro che tutti voi, ognuno di voi, ricorderebbe ogni istante alla perfezione. Ogni profumo, ogni immagine, ogni sensazione.
Sono passati quindici anni e la paura riesce ancora a congelare i nostri ricordi.
La verità è che non siamo francesi, o belgi, non siamo spagnoli né americani. Non siamo particolarmente agguerriti riguardo alla libertà di stampa e non siamo abbastanza cristiani da difendere la nostra fede.
Quando c’è un attentato ci preoccupiamo di vedere se un italiano ci ha rimesso le penne. Se scopriamo che effettivamente c’è dobbiamo saperne la provenienza.
E se il suo paese è abbastanza lontano dal nostro, dal nostro quartiere, dal nostro condominio, dal nostro pianerottolo, ce ne dimentichiamo alla svelta.
Perché non è vero che siamo tutti fratelli, non mentiamo a noi stessi. Non ce ne frega nulla di nessuno al di fuori di noi e dei nostri cari.
E’ l’ipocrisia del mondo civile a spaventarmi più di qualsiasi altra cosa.
Più degli attentati, dei morti innocenti, delle ideologie religiose.
E’ questa musica strappalacrime di sottofondo che dovremmo scollarci dalle orecchie per poter riuscire a guardare il presente dalla giusta prospettiva.
E’ questione di priorità.
Facciamo un’altra scommessa?
L’ultima, promesso.
Scommettiamo che non riuscite a ricordare cosa stavate facendo quando ci furono gli attacchi a Parigi di CINQUE MESI fa?
Alex Rebatto