Secondo gli inquirenti Fausta Bonino avrebbe ucciso 13 volte, più di molti serial killer. Ma chi sono le serial killer italiane?
L’hanno chiamata “Operazione Killer in corsia”. Sembra un film, ma non lo è. Protagonista un’infermiera di 55 anni dell’ospedale di Piombino, Fausta Bonino. Avrebbe ucciso 13 pazienti del reparto di anestesia e rianimazione tra il 2014 e il marzo 2015. Usando l’eparina, un farmaco per diluire il sangue che in dosi eccessive provoca emorragie letali.
Un’arma invisibile della quale la vittima non può accorgersi, perché non è una pistola o un coltello, ma la medicina che in teoria gli dovrebbe essere somministrata. È per questa invisibilità dell’assassino, sempre che i processi confermino le tesi dell’accusa, che la categoria degli “angeli della morte” (GUARDA IL NOSTRO SPECIALE) riesce a colpire e a uccidere quasi sempre più di un comune serial killer. Perché ora che te ne accorgi, le vittime sono già diventate tante, troppe.
L’INFERMIERA DI LUGO
Si pensi a Daniela Poggiali, l’infermiera dell’ospedale di Lugo di Romagna, famigerata per le sue foto sorridenti davanti al cadavere di una paziente. La donna è stata condannata all’ergastolo per aver ucciso un’anziana ricoverata nel suo reparto con un’iniezione di potassio. Si protesta innocente, ma la Procura di Ravenna fa sapere che entro l’estate sarà chiusa l’indagine su altre dieci morti sospette: per risolvere il mistero saranno decisive le perizie medico-legali. Si tratta di un numero spaventoso di potenziali vittime, che in Italia, per una donna, non ha precedenti. Se i fatti venissero acclarati, Daniela Poggiali sarebbe considerata la peggior serial killer del Paese.
L’ASSASSINA DI MESTRE
E proprio questo mese un’altra donna ha fatto parlare per i propri crimini. Una che ha ammazzato le migliori amiche della madre. Ora dice che la prima volta l’ha fatto perché aveva bisogno di soldi per un vecchio debito contratto dal defunto marito con gli usurai. Ma anche perché giocava ai videopoker e al bingo. Tuttavia ha negato che i delitti fossero di natura economica. Cosa ci sia realmente nella mente di Susanna Lazzarini detta Milly, la vedova nera di Mestre, è ancora tutto da scoprire. Cinquantadue anni, disoccupata, due figli di 18 e 20 anni, il 23 dicembre strangola Francesca Vianello, 81, dopo essere andata a casa sua. Non prima di aver indossato dei guanti. Se ne va portandosi via il bancomat della vittima, per usarlo al supermarket sotto casa. Ci vuol poco agli investigatori per arrivare a lei. E lei ammette: spiega che aveva un debito con Francesca di 100 euro: «Mi ha detto che ero una ladra, una falsa, che non le avrei mai più restituito il denaro che mi aveva prestato. Poi ha aggiunto che non capiva certe madri, che si sacrificano per i figli che magari sono dei poco di buono».
Sembra un dramma della povertà nel quale la donna voleva fare solo un regalo decente di Natale ai propri figli. Ma questa è una storia diversa. La prima a disperarsi per la morte di Francesca era stata infatti proprio la mamma di Milly, dato che, quattro anni prima, anche l’altra sua migliore amica, Lidia Pamio, 87 anni, era stata ammazzata in casa per pochi spicci. Quella volta con 40 coltellate. Stesso tipo di scena del crimine, stessa ferocia inaudita. Certo, l’assassina dicevano di averla presa: la vicina di casa Monica Busetto, 53 anni, ausiliaria in ospedale. Una donna che però aveva continuato a gridare invano la propria innocenza. Anche in aula, prima della condanna a 24 anni: «Io non sono stata… io non sono stata… Non ho sentito niente, mi dispiace, ero a letto, dopo aver finito il mio turno di assistenza agli anziani all’ospedale Fatebenefratelli alle 7 di mattina. Mi sono affacciata per fumare e ho visto il Suem, la Polizia, ho chiesto dalla porta a una dottoressa cosa fosse successo e mi ha detto di tornare dentro perché era accaduto qualcosa di terribile, o orribile… non ho visto il corpo dentro».
E agli inquirenti è scattato un campanello d’allarme: e se Monica fosse davvero innocente? Le hanno messe insieme, Milly e Monica, nella stessa cella, per capire se potessero essere complici. Invece no. E infatti Susanna, messa alle strette, confessa anche il delitto del 2012: «Sì, le ho uccise tutte e due io». Monica, in attesa dell’appello,viene scarcerata dopo due anni di carcere ingiusto. E tutti si concentrano su questa donna che, per ragioni non si sa bene se legate al rancore, al denaro o a chissà a che altro, ha massacrato le due amiche della madre.
È difficile inquadrare la figura di un potenziale serial killer quando a interpretarne la parte è una donna. Di certo un assassino seriale è un soggetto anafettivo, che considera gli altri propri oggetti e che presenta una varietà di moventi, compresi quelli vendicativi ed economici, per giustificare a se stesso le proprie azioni. La vedova nera di Mestre può essere tecnicamente definita, potenzialmente, così? Serial killer donne non mancano in letteratura criminale. Ma quasi mai hanno ucciso così tanto usando armi come i coltelli: caratteristica tipica è infatti l’uso del veleno. E poco altro: il soffocamento con i bimbi, la pistola in una sparuta serie di casi.
LA PSICOLOGA
Di sicuro un’infanzia terribile può condizionare la vita di una persona, portandola da grande a covare grandi desideri di vendetta, come racconta la psicologa del carcere di Como Graziella Mercanti, a proposito di un detenuto: «Un giovane in carcere per il tentato omicidio del padre, dopo aver già scontato pene per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, raccontò il suo drammatico passato, costellato da episodi di violenza e abuso. Nato in una famiglia economicamente disagiata, trascorse parecchi anni della sua infanzia in un collegio. Primogenito di cinque fratelli, fu allontanato poiché i genitori non riuscivano a far fronte alle esigenze della numerosa famiglia. Quando rientrò a casa, ormai pre-adolescente, non riuscì a reinserirsi nel tessuto famigliare a causa dei forti vissuti di estraneità. Lo stesso padre lo trattava come un estraneo e ben presto iniziò ad abusare sessualmente di lui. Da allora iniziarono le fughe da casa. Ma ad ogni rientro, si verificavano nuovamente episodi di abuso e violenza. Il sentimento di odio e rancore verso il padre abusatore, crebbe nel corso degli anni, fino a trasformarsi in desiderio di vendetta. Il forte sconvolgimento psicologico non gli permise né di studiare né di trovare un lavoro stabile e per questo, ben presto, iniziò ad usare droga e a spacciare. Ormai era adulto, ma il padre continuava a disprezzarlo e a umiliarlo. Una sera, dopo l’ennesimo litigio, aggredì il padre coprendolo di insulti e percosse, ma questi continuò a schernirlo, così imbracciò il fucile da caccia e gli sparò. Dopo un lungo periodo di riflessione, giunse alla conclusione che l’orribile trattamento ricevuto dalla famiglia, aveva minato a fondo la sua autostima e il rispetto di sé. Tante volte avrebbe voluto raccontare ciò che gli stava succedendo, ma a causa dello scarso autovalore era convinto che nessuno gli avrebbe creduto e nessuno lo avrebbe aiutato. I pensieri di odio e rancore, covati così a lungo, avevano innescato comportamenti autodistruttivi che alla fine lo avevano condotto in carcere. Da allora decise di concentrare le sue energie su una ripresa esistenziale positiva e costruttiva, scevra da pensieri di vendetta e distruzione».
In Italia, per trovare una serial killer donna in tempi recenti, prima dei clamorosi casi odierni, bisogna tornare indietro di quasi vent’anni, alla scomparsa di Angelo Porrello, 53 anni. L’ultima volta lo hanno visto vivo il 5 ottobre 1999. Poi, più nulla. Devono passare venti giorni prima che l’ex moglie lo ritrovi nella concimaia dietro la villetta che l’uomo aveva a Bascapè, nel pavese. Porrello era stato alcuni anni in carcere per abusi sessuali su minori. Lavorava in un’azienda nel lodigiano come tornitore. Ma il motivo della sua morte non è da ricercare nel suo passato. Dopo un mese il mirino degli inquirenti viene puntato su una conoscente della vittima: si chiama Milena Quaglini e dal 7 ottobre è in prigione a Vigevano per scontare la condanna comminatagli per l’omicidio del marito Mario Fogli, commesso il 2 agosto 1998. Quella di Milena è una storia strana.
Quarantadue anni, originaria di Mezzanino, vicino Broni, un’infanzia, ricorderà, piena di percosse da parte del padre. Di fatto, a diciannove anni, appena preso il diploma in ragioneria, è scappata di casa, andando a vivere a Como e a Lodi, impiegata ora come cassiera, ora come badante o donna delle pulizie. Si è sposata presto, ha avuto un figlio, ma il marito è morto di diabete fulminante. È così caduta in depressione. Ed è così che poco più tardi incontra Mario Fogli, il quale diventa il suo secondo marito. Persona che definirà ossessivo e geloso. Da lui ha due figlie, poi, si separa per andare a vivere in Veneto e a lavorare in una palestra come receptionist. Siamo nel 1995 e cominciano i primi guai. Mentre cerca una seconda occupazione, incrocia sulla sua strada Giusto Dalla Pozza, un uomo di 83 anni che necessita di una domestica a Padova. Il 25 ottobre 1995 Dalla Pozza muore, ferito alla testa e ritrovato in un lago di sangue. La Quaglini viene sentita, ma non c’è nulla che la porti sulla scena del crimine. E il caso viene archiviato. Tornata a Broni da Fogli, prova a ricompattare la famiglia. Ma le liti sono troppe. Lei prende antidepressivi. E beve. Finché, una notte, al culmine dell’ennesima discussione, mette a letto le bimbe, e gli stringe una corda di tapparella intorno a collo, mani e piedi, per mettergli paura. Ne esce una colluttazione, in cui Fogli muore strangolato.
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La donna nasconde quindi il cadavere sul balcone di casa per non far sentire nulla alle figlie. E il pomeriggio successivo chiama i carabinieri e confessa tutto. Dice che il marito le usava infinite violenze. Ma viene condannata a 14 anni di reclusione. Ecco, è per questo che, un anno più tardi, il mirino degli inquirenti del caso Porrello si sposta su di lei. Pare che la donna lo abbia conosciuto mentre si trovava agli arresti domiciliari, prima di rientrare in carcere il 7 ottobre per essere stata pescata due volte fuori dall’abitazione. Possibile che tra il giorno della scomparsa di Porrello, il 5, e il rientro di lei dietro le sbarre, il 7, i due si siano potuti vedere? Viene disposta l’analisi del dna su alcuni capelli ritrovati nell’abitazione dell’uomo. Lei, intanto, ammette al suo avvocato di aver conosciuto Porrello tramite un giornale di annunci: lui offriva una stanza in affitto con bagno e cucina. Quindi, il 23 novembre 1999, capitola: «L’ho ucciso io».
Racconta di averlo fatto proprio il 5 ottobre, perché costretta a subire uno stupro: gli ha dato un caffè in cui ha disciolto del sonnifero. Poi lo ha annegato in una vasca da bagno, prima di buttarlo nel letamaio dietro casa. «Milena mi ha più volte ripetuto – dice il suo avvocato Licia Sardo al Corriere della Sera – che non sopportava più di essere maltrattata dagli uomini. Ad ogni sberla del marito prima e di Angelo Porrello poi, riaffiorava il ricordo del padre violento e delle percosse subìte da bambina». Cinque giorni più tardi il sipario cala: la Quaglini ammette di aver ammazzato anche l’anziano Giusto Dalla Pozza nel 1995. Lo avrebbe colpito con una lampada quando l’uomo le aveva chiesto prestazioni sessuali in cambio del prestito di quattro milioni che le aveva concesso. Quando i delitti sono tre si comincia a parlare di serial killer, una rara serial killer al femminile. Per altri la Vedova Nera. Di certo, un anno dopo, per l’omicidio Fogli la Corte d’Assise d’Appello di Milano le riduce la pena da 14 anni a sei anni e otto mesi, riconoscendole la seminfermità mentale. Ma l’anno successivo, mentre prende corpo il processo per il caso Porrello e la perizia del tribunale la giudica capace d’intendere e di volere, prospettandole una possibile pesante condanna, Milena Quaglini non regge più. Una settimana prima della sentenza, il 16 ottobre 2001, si impicca in cella, nel carcere di Vigevano.
L’odio verso il genere maschile ricorda la storia più nota di serial killer al femminile: la vicenda di Aileen Carol Wuornos, condannata a morte per aver ucciso sette uomini tra il 1989 e il 1990. Faceva la prostituta dopo aver trascorso un’infanzia terribile. Si difese sempre sostenendo di essersi semplicemente difesa da tentativi di stupro, pratica che aveva subito fin da giovane. A farla arrestare fu la compagna Tirya Moore, stanca della lunga scia di sangue. Un anno dopo la sua morte un film ne raccontò la vita: Monster, con Charlize Theron, che si aggiudicò l’Oscar.
“MA SMITIZZIAMO LA CIANCIULLI, NON FECE MAI SAPONI UMANI”
La più famosa serial killer della storia è comunque, probabilmente, un’italiana, Leonarda Cianciulli, morta in manicomio criminale nel 1970. Per tutti la “Saponificatrice”, la donna che uccideva le amiche e che, per come ce l’hanno tramandata, dei cadaveri faceva saponi. Ma anche polveri da mischiare a cioccolatini e torte da dare ai vicini. Fabio Sanvitale, giornalista investigativo, ha però scritto insieme al professor Vincenzo Mastronardi un libro in cui si smitizzano gran parte delle leggende intorno alla donna. Ne Leonarda Cianciulli. La Saponificatrice (Armando) gli autori fanno di Leonarda un ritratto diverso. «Siamo partiti dagli atti processuali – dice Fabio – per poi rifare le indagini».
Cos’hai scoperto?
«Che la Cianciulli non ha mai fatto sapone, nè prima nè dopo i delitti. Che nessuno testimoniò mai di averlo comprato da lei. Che provo, sì, a bollire i cadaveri, ma che, come dire, sbagliò ricetta e dovette usare altri metodi per disfarsi dei corpi. Che in famiglia una persona verosimilmente l’aveva aiutata. Le stupidaggini della Cianciulli crearono una mitologia affascinante per il pubblico. Gli psichiatri caddero, secondo Mastronardi, parzialmente in errore; la definirono totalmente incapace di intendere e di volere. Fu più saggia la giuria, che la definì seminferma di mente. L’errore vero degli psichiatri dell’epoca fu di credere al suo romanzato Memoriale, scambiato per una storia vera».
Ci sono donne serial killer che, secondo te, per modus operandi somigliano alla Cianciulli?
«Donne serial killer ce ne sono molte più di quanto si creda. Donne depezzatrici, cioè che fanno a pezzi le loro vittime, molto rare: l’omicidio femminile resta comunque di stampo meno cruento di quello maschile, quasi sempre».
Manuel Montero