E’ buia la Milano del settecento. A tarda sera i nobili locali, in abito scuro elegante accompagnati da azzimate dame, sistemata la tuba sulla testa, s’incamminavano per le vie centrali della città preceduti da un servo con una lampada in mano intento ad illuminarne il cammino.
C’era un’aria tenue, di velluto, lungo le strade da percorrere in carrozza per arrivare alla Scala, il tempio della musica sinfonica per eccellenza, all’inizio del novecento. Il maestro Giuseppe Verdi, in fin di vita sul suo letto macchiato di ricordi e note, sta per esalare il suo ultimo respiro. Via Manzoni, una distesa di fieno per attutire il rumore degli zoccoli dei cavalli, è in silenziosa e rispettosa attesa della fine.
Ecco la cartolina di Milano, la bella tragica Milano, che vorremmo restasse in bianco e nero per non doversi macchiare dei colori attuali. La capitale della moda ormai ha perso gran parte del suo innocuo romanticismo. Il Duomo si specchia nella sua imponenza e sorveglia una piazza accecata dai flash e dai piccioni affamati. Profumi di caldarroste vendute a prezzo d’oro, di frittelle e essenze che scivolano via seguendo minigonne e tacchi alti in piena sfilata, tra una spalla e l’altra. Milano è Corso Buenos Aires con i suoi mille negozi, è Via Vitruvio che sfocia nella pericolosa e affascinante Stazione Centrale, è Via Paolo Sarpi con i suoi negozi cinesi a buon mercato e dall’economia virtuosa. Milano è tra le acque quasi putride dei Navigli, ripulite in periodo di Expo e ora tornate ai grandi fasti. E’ la movida del weekend, tra un drink e un’occhiata alla mora dietro al bancone.
Milano è luci e ombre, divieti di transito e relative multe. E’ la fontana principesca di Piazza Giulio Cesare ed è, grattando grattando, la Milano dei mille controsensi. Scivolando tra le ultime panetterie con i vetri invecchiati, davanti a focacce rotonde dure come sassi, e centri massaggi cinesi così sospetti da apparire quasi folkloristici, si arriva nei quartieri popolari della città, quelli che non compaiono mai sulle cartoline. Addentrandosi tra sacchi della spazzatura abbandonati da chissà quanto tempo, murales o scarabocchi volgari, facce inequivocabili e puzza di piscio ai bordi del marciapiede, si può arrivare in Via Preneste, in Via Tracia o in Via Quarti. Sono terra di nessuno. Le volanti della polizia passano lentamente di ronda senza trovare alcunché da segnalare, i panni sono appesi alle finestre e ogni tanto qualcuno grida qualcosa d’incomprensibile. Ci sono auto bruciate e gatti randagi in cerca di cibo. Scarafaggi sulle scale, anziani vestiti di stracci e immigrati sperduti. Porte abbattute e abitazioni occupate, cartelli minacciosi e simboli arabi. Un forte profumo di spezie e biciclette arrugginite. Una madonna con un cero acceso sotto il naso e sterpaglia a non finire. Accenti lontani, passaggi di merce e un ragazzo di colore che tiene aperto il cancello con un sorriso sincero. Milano è una voce che si perde tra il frastuono dei clacson e un grido d’aiuto.
Se bastasse ancora un mucchio di fieno sarebbe, forse, ancora una città perfetta. Ora ci sono un mare di lampioni accesi. Ma non c’è più molto da illuminare.
Alex Rebatto
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