La vera Italia di Checco Zalone? Ve la raccontiamo: statali che non mollano il posto fisso. Gente che timbra e se ne va al mercato, ciechi che giocano a softair. E la famigerata bagarre dei Rolex…
Al cinema è un tornado: 50 milioni di euro incassati in dieci giorni. Chi rosica, chi ancora gioca a fare lo snob, chi prova a lanciarsi in interpretazioni politiche da scranni troppo alti per scendere in un bar di periferia o di provincia per poter capire. La verità è che Checco Zalone fa dannatamente ridere perché è liberatorio e racconta con un sorriso politically scorrect quello che tutti vediamo e sappiamo: l’Italia dei furbi e degli intrallazzatori, di chi pensa al proprio orticello e non si stacca mai dalla poltrona. Nemmeno a costo di finire al Polo Nord. È così che stavolta Checco fa l’impiegato in Provincia, che però, cancellata (o meglio mutata), non ha più bisogno di lui. E gli offre incentivi per farlo sloggiare. A lui, perché per tutti gli altri c’è sempre una scappatoia. Ma alla “maschera” dell’impiegato statale tutto puoi chiedere, tranne che di rinunciare ai propri privilegi, manco al tempo della crisi più nera che l’Italia abbia conosciuto. E in fondo Checco ingigantisce e rende grottesco quel che davvero accade anche in questi giorni.
Al Cnel non se ne va nessuno
Si pensi al Cnel, l’ente consultivo di Camere e Regioni abolito dal governo che continua a costare 7 milioni di euro. Il motivo? Fermo da luglio, deve attendere il referendum che ratifichi il disegno di legge, essendo un ente previsto dalla Costituzione. Nell’attesa i dipendenti continuano a far presenza, senza dover far nulla. È stato proposto loro il trasferimento ad altro ufficio (trasferimento, non licenziamento), ma solo 3 hanno accettato. Gli altri sono rimasti lì: ben 65 persone pagate, premi di produzione compresi, senza, scrive il quotidiano Il Messaggero che ha sollevato il caso, dover far nulla. Si parla di cifre che andrebbero dai 10 ai 16 mila euro, dati perché la situazione creatasi non è “colpa” dei dirigenti. E poi, come ripete il senatore interpretato nel film da Lino Banfi, «il posto fisso è sacro».
Gli assenteisti
Un posto fisso tra gli statali, dove il comico mostra gente che timbra il cartellino senza stare al lavoro. Una cosa così consueta che fai prima a ridere che a stupirti: sembrava che gli ultimi li avessero pescati a Sanremo i dipendenti del Comune lo scorso ottobre: timbravano e andavano a fare la spesa, al bar, al ristorante. Invece è successo ancora, mentre al cinema si rideva: a Roma nove dipendenti del museo di Arti Popolari sono stati sospesi perché strisciavano il cartellino e se ne andavano. Una si recava direttamente al negozio ortofrutticolo del marito. Un altro si precipitava alla sala scommesse della zona. La Corte dei conti ha appena condannato il luminare assenteista Francesco Lippi, endocrinologo spesso ospite in tv, a riscarire l’azienda ospedaliera pisana con 120mila euro, 90mila dei quali per stipendi percepiti indebitamente: nel luglio 2014 aveva patteggiato due anni per falso e truffa. A maggio era successo a Milano, con un primario condannato a un anno e quattro mesi. La ragione? Nel solo 2013 aveva timbrato 145 volte senza poi entrare al lavoro.
I malati del lunedì
Ed è ancora Quo vado?, il film di Zalone, a fornirci un’altra chiave di lettura della realtà, quando il Senatore gli suggerisce di mettersi in malattia, giusto il tempo di riposarsi. Solo un film? Quando mai. Una ricerca della Cgia di Mestre mise in luce le curiose “analogie” tra i malanni degli italiani. E cioè che non era evidentemente solo Vasco Rossi a odiare il lunedì nelle sue canzoni, ma quasi tutto il Paese: più del 30% dei certificati medici dei lavoratori dipendenti viene infatti presentato il lunedì. Una minoranza, si dirà. Non proprio: nel 2012 sei milioni di italiani hanno comunque accusato almeno un giorno di malattia. La media è di 2,23 volte all’anno con 17,71 giorni a casa. Totale: 106 milioni di giorni a letto. E, vedicaso, dalla ricerca emergeva che nel settore pubblico ci si ammala di più, anche se si sta a casa di meno: una media di 2,62 volte l’anno per 16,72 giorni d’assenza. Nel privato si scende a 2,08 volte all’anno, per un totale, tuttavia, di 18,11 giorni d’assenza. Non tutte le zone sono uguali.
Al Sud tutti malati
Secondo i dati della Cgia, la Regione con il record di giorni di malattia (basati sul 2012) era la Calabria che, nel settore privato, arrivava a contarne in media 41,8 l’anno. Erano invece 34,6 nel settore pubblico. Seguivano la Sicilia (19,9 giorni all’anno), la Campania (19,4) e la Puglia (18,8). Per contro, i lavoratori più in forma si trovavano al Centro Nord: in Emilia Romagna 16,3 giorni di malattia all’anno, in Veneto 15,5. In Trentino Alto Adige 15,3, addirittura quasi un terzo della Calabria. Chissà, sarà il clima.
L’uomo che andò in pensione senza mai lavorare
Anche se a tutto dovrebbe esserci un limite. Invece no. Incredibile è stata la storia raccontata in prima persona dal protagonista, Carlo Cani, minatore dal Carbonsulcis: è andato in pensione senza aver praticamente mai lavorato. Dopo 13 anni di malattia, alcuni anni in cassa integrazione e altri di mobilità, l’uomo ha ricevuto l’assegno dell’Inps. Cani ha infatti svelato a La Stampa il personale metodo usato: «Mi inventavo di tutto: amnesie, dolori, emorroidi, camminavo sbandando come fossi ubriaco. Mi capitava di urtare la parete con un pollice e lavorare con un dito gonfio ovviamente era impossibile. Altre volte mi finiva la polvere in un occhio. E poi il collo, mesi passati con il collare per tenere a bada una maledettissima cervicale». Giunto secondo alla graduatoria del collocamento, era entrato in miniera nel 1980 per rinuncia del primo della lista: «Praticamente non ho lavorato mai. Nel 2006 sono andato in pensione con trentacinque anni di anzianità». Prima i certificati medici, poi, nel 1993, la cassa integrazione e ancora la mobilità. Infine le agevolazioni previste per chi svolge un lavoro usurante: ed ecco la pensione a 52 anni, rigorosamente pagatagli dal contribuente. Un’eccezione sicuramente.
Il cieco che giocava a softair
Ma ancora il nostro comico ci viene incontro, cantando in una parodia delle melodie di Adriano Celentano, quel che è già un tormentone del film: “La prima Repubblica non si scorda mai”. Ossia: “e gli uscieri paraplegici saltavano/ e i bidelli sordomuti cantavano”. E ovviamente tutti giù a ridere. Senonchè l’ultimo “miracolato” l’ha pescato la guardia di finanza di Varese poco prima che nelle sale uscisse Quo vado?. Non era un sordomuto che cantava, ma un cieco che giocava a softair. Lo hanno scovato grazie all’eccessiva sicurezza del falso invalido, che su Facebook pubblicava le sue immagini mentre partecipava ad un torneo o ancora mentre salutava l’obiettivo di una macchina fotografica, immerso nel mare con tanto di maschera da sub. Una storia che in effetti sembra la trama di un film di Checco: riconosciuto ipovedente grave nel 1990 da una commissone medica di Palermo si era fatto assumere in un ufficio pubblico nei posti riservati ai disabili nel 2006 a Varese, come centralisita non vedente. Ovviamente con tanto di pensione di invalidità. Cinque anni più tardi un nuovo controllo a Varese aveva verificato che il suo problema non era affatto grave. Ma perché riferirlo ai capi? Aveva preferito giocare alla guerra nei boschi e godersi la pensione. Una storia che indigna e mette rabbia per chi invalido lo è veramente e viene sottoposto all’esasperazione di controlli continui, lettere da compilare e firmare ogni anno.
Dai dobloni di Poggiolini alla bagarre per i Rolex
Eppure è una realtà nemmeno troppo sommersa, perché il cieco che giocava a softair è solo l’ultimo di una lunga lista, venuta clamorosamente a galla dopo gli scandali di Tangentopoli, che avevano messo in luce quanto i politici fossero molto più furbi e intrallazzatori del popolo che rappresentavano. Un’inchiesta di cui restano nella testa dei quarantenni, più o meno l’età di Zalone (che ne fa 39 a giugno) alcune immagini topiche: le mazzette di contanti infilate nelle buste, le accuse di concussione che echeggiavano in tv, i soldi buttati in pattumiera nelle versioni degli indagati, i dobloni nel puff di Duilio Poggiolini. Roba che nemmeno Il Corsaro Nero. Ma, appunto, “la prima Repubblica non si scorda mai”, canta il nostro comico di punta. E allora ecco una storiella tutta italiana, raccontata da Il Fatto Quotidiano, sul viaggio di Matteo Renzi e alcuni funzionari governativi a Ryad. Nella notte tra l’8 e il 9 novembre la delegazione italiana avrebbe ricevuto in dono dai sovrani sauditi degli scintillanti Rolex infiocchettati. Solo che, su direttiva di Mario Monti tesa ad evitare quel che accadde ormai vent’anni fa, gli impiegati pubblici non possono accettare regali del valore superiore ai 150 euro. E nel caso consegnarli subito all’ufficio di competenza. E qui il valore dei Rolex andava, secondo il Fatto, oltre qualche decine di migliaia di euro. Non si può dunque accettare, ma pare ci fosse uno che il Rolex lo voleva proprio. E se lo voleva uno, allora il Rolex doveva andare a tutti. Si sarebbe dunque scatenato un parapiglia per accaparrarsi l’orologio, con urla e scene da mercato, davanti agli arabi stupefatti. All’indomani dell’inchiesta, una nota governativa ha precisato: «I doni sono nelle disponibilità di Palazzo Chigi». Finita qui, dunque? Nemmeno per idea. Sinistra Italiana ha presentato un’interrogazione parlamentare: «Al Presidente del Consiglio dei ministri Renzi, Sinistra Italiana chiede se vero che la delegazione abbia accettato cronografi e orologi Rolex in omaggio dall’Arabia Saudita, responsabile, tra l’altro, di violazione di diritti umani fondamentali, a chi sono stati consegnati tali regali; se è vero che attualmente sono sono in capo alla Presidenza del Consiglio; se oggi sono nella disponibilità di Palazzo Chigi, quanti sono i cronografi e quanti gli orologi Rolex e se corrispondono con il numero di regali ricevuti a Riad». Nei prossimi giorni la risposta. Ma a voi, in questo momento, non viene un po’ di nostalgia?
Manuel Montero