In manette un ex compagno di scuola di Lidia Macchi: sarebbe l’autore della lettera anonima ricevuta dai famigliari della vittima il giorno del funerale. Ma lui si protesta innocente
Il 5 gennaio 1987 fa un freddo terribile. Lidia Macchi, 21 anni, vive coi genitori a Casbeno, quartiere di Varese. Chiede al padre la Panda per andare a trovare Paola Bonari, un’amica ricoverata all’ospedale di Cittiglio per via di un incidente stradale: diciannove chilometri, mezz’ora di strada. Il papà le mette in mano anche 10mila lire per la benzina. Lida arriva da Paola. La saluta. Va via. Ma a casa non torna.
La trovano due giorni più tardi tre amici, in località Sass Pinì, una strada sterrata nei pressi della ferrovia. La Panda ha lo sportello aperto, quadro e spia della riserva accesi. Il cadavere, coperto dai cartoni, sotto ai pantaloni, indossa i collant al contrario. Come se fosse stata rivestita. È stata uccisa con 29 coltellate. Sul corpo ci sono tracce organiche.
È Enzo Tortora, tornato in tv dopo le infamie che l’avevano portato ingiustamente in carcere, a suggerire di usare una nuova tecnica inglese per trovare l’assassino: il test del dna. Scoppiano polemiche. Ma alla fine il codice genetico viene prelevato a 4 persone e spedito in Gran Bretagna. Esito: negativo.
Lidia faceva parte di Comunione e Liberazione. Aleggia l’ombra del sospetto su un religioso, don Antonio Costabile, responsabile del gruppo scout di Lidia. Ombre che saranno dissipate oltre 25 anni più tardi dalla Procura generale di Milano che ha avocato a sé le indagini. Perché il caso è diventato frattanto un coldcase.
La prima svolta
A luglio 2014 sembra giungere la svolta: è il momento in cui arriva l’avviso di conclusione delle indagini a Giuseppe Piccolomo, già in galera per aver ucciso e mozzato le mani a Carla Molinari, 82 anni, sgozzata a Cocquio Trevisago nel 2009. A portare gli inquirenti su di lui ci sono addirittura le figlie dell’uomo, che ricordano come Piccolomo, nel tentare di spaventarle da piccole, ripetesse: «Vi faccio fare la fine che ho fatto fare a Lidia Macchi!». C’è altro: l’identikit di un uomo che aveva aggredito ben quattro donne nel parcheggio dell’ospedale di Cittiglio uno e due giorni prima la scomparsa di Lidia. La somiglianza con Piccolomo è sorprendente. Di più: Piccolomo non abitava lontano dal luogo del ritrovamento di Lidia e lui, in un’intervista a Quarto Grado, aveva ammesso di essercisi recato. E ancora dicono che il tipo di imballaggio usato per coprire il cadavere potrebbe portare a lui. Una formidabile serie di indizi.
Solo che Piccolomo non è l’assassino di Lidia. Lo scagiona il dna. Si è trattato dunque solo di coincidenze e suggestioni.
L’ex compagno
In prigione ora è finito un disoccupato di 47 anni, Stefano Binda, ex compagno di scuola di Lidia e che ne frequentava lo stesso circolo di CL. Secondo una perizia calligrafica Stefano è l’uomo che inviò una lettera anonima ai genitori di Lidia dal titolo “In morte di un’amica”. La lettera fu mostrata in tv, sempre a Quarto Grado. E fu allora che una donna ne riconobbe la stessa grafia usata in alcune cartoline che Stefano le avrebbe mandato. Una perizia ha confermato. Secondo gli inquirenti l’uomo avrebbe ucciso Lidia perché si era concessa e non avrebbe dovuto farlo per via del suo “credo religioso”. Anche se, più che concessasi, Stefano l’avrebbe violentata. Accusato di omicidio volontario aggravato dai motivi abietti e futili, dalla crudeltà, dal nesso teleologico e dalla minorata difesa, Stefano si protesta innocente. Laureato in filosofia, vive con la madre pensionata a Brebbia, Varese. Descritto come colto, avrebbe avuto qualche problema di droga negli anni Novanta.
Sul Corriere della Sera si rivela che “conosceva bene Lidia, benissimo. Era uno dei suoi migliori amici, frequentava l’abitazione con assiduità. Una frequentazione proseguita anche dopo la morte della ragazza: era stato uno dei primi, quando Lidia scomparve, a voler incontrare i suoi genitori, per portare tutta la propria solidarietà, sempre ricambiato dell’affetto di mamma e papà Macchi i quali, una sera, lo vollero ospitare anche a cena. E lui, l’assassino, accettò senza esitazione.”
Eppure a Radio Uno la mamma di Lidia ha affermato di averlo visto poche volte in passato e che non frequentava né la figlia né la loro casa.
Visita la sezione Undeground di Gqitalia- GUARDA
Il puzzle
La lettera della svolta viene mostrata su Repubblica: è una poesia, intrisa di misticismo religioso. Parla della morte violenta di Lidia. Ma non ci sono dettagli sull’omicidio. All’epoca Stefano aveva 19 anni, certamente, per via delle sue frequentazioni, era molto credente. Ma possibile che sia solo questo ad accusarlo? Non c’è un altro documento? Perché se la lettera completa è quella che mostra il sito di Repubblica, c’è da chiedersi: e anche se l’avesse scritta lui? Deve per forza esserci dell’altro, una sorta di confessione, anche se il rischio della mitomania nelle lettere è sempre dietro l’angolo.
Però, per ora, appare sui media solo questa poesia.
Nella frammentazione delle notizie che appaiono oggi, si trova qualcosa in più per ricostruire il puzzle. Su La Provincia di Varese, quotidiano che per ragioni geografiche deve avere fonti attendibili di prima mano, c’è scritto che la donna che ha riconosciuto la calligrafia di Stefano ha conservato le missive e le ha consegnate alla polizia. E aggiunge, il quotidiano: “La grafia è la stessa anche se il DNA rilevato sul francobollo affrancato alla lettera non appartiene a Binda”.
Si tratta del particolare più importante. Dunque gli inquirenti hanno già in mano il suo codice genetico. Anche se non si parla, sui giornali, di raffronti con quello trovato sulla scena del crimine. È già stato fatto?
Coincide?
Edoardo Montolli per Gqitalia.it
Tutti i libri di Edoardo Montolli – GUARDA
Il boia di Edoardo Montolli su Kindle – GUARDA