Paolo Grugni ha impiegato circa quattro anni per scrivere Darkland (pubblicato nel novembre scorso dalla neonata Melville Edizioni e l’impatto con la svastica in copertina toglie subito ogni dubbio sull’argomento scelto). Si è trattato di un tempo lungo dedicato in buona parte a raccogliere un’attenta e doverosa documentazione visto il tema con il quale già diversi autori si sono cimentati. La ricca bibliografia è indicata in calce al romanzo e testimonia l’impegno riservato alla ricerca e all’approfondimento. Questo sforzo ha consentito all’autore di raccontare il passato riflesso nel presente e allo stesso tempo di ricomporre il mosaico di un’accurata indagine svolta tra le pieghe tenebrose dell’attuale società tedesca costretta a fare i conti con rigurgiti neonazisti.
Tra i personaggi risalta la figura di Arno Schulze, commissario della Kriminalpolizei ormai in pensione, uomo dai due pacchetti di Lucky Strike fumate al giorno da oltre trent’anni, e, di fronte al ritorno di un incubo, determinato a farsi tornare le forze per riprendere la caccia. Nonostante i segni di cedimento del fisico. Perché Schulze ha ancora un conto aperto con il proprio passato professionale, ovvero il caso mai risolto della scomparsa di un gruppo di persone. Vuole cancellare quel crimine tanto da desiderare di morire un minuto dopo avere preso l’assassino.
Il poliziotto riesce, nel suo microcosmo letterario, a rappresentare una collettività ancora determinata a cercare un barlume di luce, mai del tutto sconfitta o rassegnata a farsi risucchiare dalle tenebre calate sul palcoscenico germanico nel secolo scorso.
Darkland raccoglie comunque in sé tutti gli elementi del thriller. Si incomincia con la scoperta casuale (o forse con la complicità di un personaggio non secondario come la pioggia, emblema e anima purificatrice di Germania) di resti umani dissepolti in un angolo di Selva Nera dopo un violento temporale. Lo sviluppo investigativo porta invece il lettore a impattare contro il tentativo di rivincita di una setta segreta che ancora inneggia ai fasti hitleriani.
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Ma Darkland è anche un romanzo che permette di leggere tra le righe della storia recente offuscata da quell’idea di sperimentazione come pensiero irrazionale che ha alimentato il nazismo fin dalla nascita. Sperimentazione come motore con cui Paolo Grugni fa muovere l’intera vicenda, sottolineando quanto attorno alla medicina e alla sperimentazione stessa ruotasse il concetto di razza ariana, quello del rinnovamento dell’umanità tramite la ricerca della purezza, il suo utilizzo come strumento di massa da un lato ma altresì come ricerca dell’uomo superiore.
L’autore ci accompagna in un viaggio nelle atmosfere dei campi di concentramento tra ebrei non intesi come razza inferiore, bensì razza nemica da eliminare con uno scopo preciso: la supremazia della razza ariana a scapito di quella ebraica. Parte tutto dal fatto che gli ebrei si consideravano un popolo eletto.
Si parla di soluzione finale, del consenso popolare, della complicità diffusa nei confronti di un genocidio che rappresentava un servizio reso al popolo e quindi capace di lavare le coscienze dei colpevoli. Una verità difficile da raccontare ma che raggiunge il suo obiettivo grazie anche alla scioltezza di stile che mai si crogiola nel male e nel dolore fine a se stesso. Un romanzo in linea con le scelte editoriali della Melville Edizioni nata “per fare cose belle, magari difficili. Forse non per tutti. Comunque, destinate a restare, puntando sull’altissima qualità dei testi e su una presentazione che recuperi il piacere tattile e visivo che un libro ci può dare”.
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