Alla fine lo Stato ha vinto. E’ riuscito a piegare, umiliare e spezzare il nemico pubblico degli anni settanta che, sorriso sarcastico inchiodato sul volto, ha attraversato i decenni tra reclusioni e fughe rocambolesche, tra luci ed ombre.
Dopo 52 anni di carcere, con sporadiche concessioni temporanee, il boss della Comasina esce finalmente dal carcere. Ma lo fa da condannato a morte, così come l’opinione pubblica richiedeva a gran voce.
Troppo conosciuto, Vallanzasca. Troppo rappresentativo di un’epoca scura da dimenticare.
“Ha pochissimi momenti di lucidità”, ha rivelato nelle ultime ore il sodale di vecchia data Tino Stefanini.
I “piantoni”, ovvero i compagni di cella che si prodigano per aiutare e sostenere chi non è autosufficiente, da un pezzo si alternavano per tirare su da terra l’ex boss quando crollava ai piedi della branda o per aiutarlo a mangiare.
“Ragazzi non qualificati”, viene detto.
Così Renato verrà spedito, scorta al seguito, presso L’opera della Provvidenza a due passi da Padova. L’unica che si è offerta di dare asilo ad un anziano malato di demenza ed incapace di provvedere a sé stesso.
La giustizia divina prende tempo e incarica i gregari di fare rapporto.
Ne è passato di tempo dai colpi all’Esselunga di Via Monte Rosa, a Milano. Dal rapimento della Trapani. Dalla fuga dal traghetto diretto in Sardegna.
La chioma si è sfoltita, i denti sono caduti. Le ossa si sono consumate.
Ed il cervello ha deciso di non rinnovare il contratto.
A settantaquattro anni di Renato Vallanzasca, di quel Renato Vallanzasca, non resta che il fantasma.
E’ lo spettro del tempo passato, come se il Canto di Natale potesse ancora fare breccia dei sentimenti comuni e far pendere la bilancia sul desiderio di una vendetta mai del tutto recisa.
La vendetta, appunto.
I parenti delle vittime (vere o presunte) i derubati, i rapiti, i testimoni, i reduci. Forcaioli e approfittatori in attesa del cadavere lungo il fiume.
Vallanzasca non è ancora morto ma è come se lo fosse.
L’opinione pubblica ora può tirare un sospiro di sollievo: per una volta giustizia è fatta.
Ma cosa abbiamo vinto?
Abbiamo vinto il piacere di vedere un vecchio invalido schiacciato dallo strapotere dello stato? Abbiamo assecondato e coronato la nostra sete di sangue per lo schifoso criminale colpevole di tante nefandezze?
Abbiamo dimostrato che un giudice per una volta, almeno per una volta, è stato capace di decretare quella che è a tutti gli effetti una condanna a morte?
Perfetto.
Ora ammiriamo il cadavere che lascia il carcere di Bollate ed abbandona la sua Lombardia per finire in un cimitero veneto.
Insultiamolo mentre si aprono le porte della RSA che lo terrà di nuovo rinchiuso ed inconsapevole per l’ultimo degradante viaggio verso l’oblio.
Dimentichiamoci di Vallanzasca come lui, finalmente, si è dimenticato di noi.
Alex Rebatto