Crimen incontra l’autore della biografia della Cianciulli, scoprendo che il Mostro era più avida e furba che pazza…
Il libro uscì per l’editore Armando. E Fabio Sanvitale lo scrisse insieme al professor Vincenzo Mastronardi. In Leonarda Cianciulli. La Saponificatrice, gli autori hanno letto l’inedito e lunghissimo memoriale della più famosa serial killer italiana. Ne è uscito un ritratto completamente diverso da come ce lo ha tramandato la storia. Abbiamo incontrato Sanvitale per capirci qualcosa di più.
Anzitutto, perché hai deciso di occuparti di Leonarda Cianciulli?
«Perché il caso della Saponificatrice di Correggio è incredibile. Chi resisterebbe di fronte alla storia di un’assassina che fa sapone con le sue vittime e poi torte e poi le fa mangiare ai familiare ed alle amiche? Mi sembrava una storia da record e volevo assolutamente entrare nella vita e nella testa della Cianciulli. Così, per quasi tre anni è diventata un’ossessione, fino a quando non è uscito il libro».
Come è stata portata avanti la ricerca?
«Il punto di partenza è lo stesso che poi ha caratterizzato tutta la mia produzione seguente che, a differenza di questo libro, è sempre avvenuta con Armando Palmegiani. E cioè: si parte dagli atti processuali. Non è una scelta da poco. Significa avere le autorizzazioni giuste, viaggiare fino a dove si trovano, leggere migliaia e migliaia di vecchie pagine, selezionare, capire. Passo successivo: vedere i luoghi, cercare i testimoni ancora viventi se esistono, chiedere nuove perizie allora non possibili, contattare esperti che aiutassero me e Vincenzo Mastronardi a capire davvero come fossero andate le cose. Insomma, rifare le indagini. Molti scrivono facendo copia-incolla da altri libri e questo genera quello che chiamo “effetto domino”. Se il primo libro contiene un errore, tutti i successivi lo conterranno. Ma faccio il giornalista investigativo. Volevo evitarlo e, evitandolo, ho scoperto cose…»
IL LIBRO:
Il processo ci ha lasciato la storia di una donna impazzita al momento della chiamata alle armi del figlio: voleva salvarlo e iniziò a fare sacrifici umani, memore della sventura predetta da una zingara. Cos’hai scoperto in proposito?
«Che la Cianciulli non ha mai fatto sapone, nè prima nè dopo i delitti. Che nessuno testimoniò mai di averlo comprato da lei. Che provo, sì, a bollire i cadaveri, ma che, come dire, sbagliò ricetta e dovette usare altri metodi per disfarsi dei corpi. Che in famiglia una persona verosimilmente l’aveva aiutata. Che invece tutti gli altri non sapevano nulla e come era potuto succedere: sono proprio una serie di intuizioni di Armando Palmegiani che lo spiegano precisamente, nel libro… A Vincenzo Mastronardi invece è toccato il compito di rileggere la perizia psichiatrica che fu svolta negli anni Quaranta, alla luce della psichiatria odierna e di quello che sappiamo sui serial killer. Ma soprattutto emerge un’altra Cianciulli, creatrice abilissima del mito di se stessa, quasi una romanziera quando scrive il suo Memoriale in manicomio. Dove si racconta in modo favolistico, teatrale, istrionico, scrivendo una sequela di abili falsità che durano tutt’oggi e si ritrovano in quasi tutti i siti che parlano di lei: leggeva le carte, faceva pozioni, fece il sapone con le vittime, la madre la maledì quando si sposò….e così via».
Da cosa derivano le tue conclusioni?
«Derivano dalle indagini che ho svolto, dalla visione delle carte processuali, dalle testimonianze trovate: perché quando scrissi il libro alcuni dei protagonisti di allora erano ancora vivi. E ancora dall’utilizzo di tecniche di indagine moderne e di cognizioni criminalistiche attuali. Questo mi ha consentito di andare oltre. Ma all’epoca avevano comunque fatto un ottimo lavoro, quelli della polizia. Solo che le stupidaggini della Cianciulli offuscarono quelle verità creando una mitologia più affascinante per il pubblico. Gli psichiatri caddero, secondo Mastronardi, parzialmente in errore; la definirono totalmente incapace di intendere e di volere. Fu più saggia la giuria, che la definì seminferma di mente. L’errore vero degli psichiatri dell’epoca fu di credere al Memoriale, di averlo scambiato per una storia vera».
Cosa avrebbe fatto, secondo te, Leonarda Cianciulli, se il figlio non fosse stato scagionato?
«Avrebbe continuato a urlare che aveva fatto tutto da sola, cosa impossibile. Della sua vita non le importava nulla, potevano anche fucilarla! Tenere fuori Giuseppe, suo figlio, era l’unica cosa che le interessava. Un po’ bisogna capirla: ne aveva quattro, ma ne aveva persi tredici. Un po’ ci marciava sopra, visto che la vera matrice dei delitti era il furto. D’altronde, c’è una tipologia di serial killer in cui lei rientra perfettamente ed è quella delle “assassine per profitto”».
Che fine fece il figlio di Leonarda?
«Giuseppe Pansardi andò a vivere a Genova, dove fece l’insegnante in una scuola privata e si sposò».
Cosa racconta il famigerato memoriale?
«Tutta la vita della Cianciulli. È un’esperienza affascinante, leggerlo. Conosco e ho letto tantissimi memoriali di criminali, davvero tanti. Ma nessuno è così torrenziale. Nessuno è così intriso di invenzioni, di una realtà alterata. Leonarda veniva da Montella, in Irpinia, e comincia da lì. Sa di aver avuto un’infanzia povera, con il disastro economico del padre. E allora inventa un’altra vita. Le zuppe inglesi, la ricchezza, un clima da favola, la Regina che manda telegrammi. Lei che suona l’arpa, lo zio vescovo: tutte falsità. E poi continua così, alterando tutta la sua vita, vedendo dappertutto segni misterici, premonizioni, tacendo naturalmente parte dei suoi comportamenti criminali… E inventando quelle marmellate di sangue, cioccolata e spezie che le servivano per la sua difesa. L’incipit è meraviglioso: “Aprile, il mese dal dolce nome, pieno di trilli di uccelli, di fremiti di foglie e di risatine di polli”. Poi racconta la storia dello stupro da cui sarebbe nata: “il ratto fu terribile, commovente e ultra-romanzesco”. Tutto è romanzesco, nel memoriale, perché lei ha disperatamente bisogno di mettersi al centro, di non essere l’ultima, di avere un senso. Prima del matrimonio una zingara appare dal nulla e le predice sventura. Le dice: “vedo nella mano destra il carcere, nella sinistra il manicomio”: che è una frase ad effetto. Dopo le nozze apre una scuola, anche se aveva la terza elementare… comincia a perdere figli (“Mia madre mi chiamava Norina, mio padre Nardina, perciò potevo benissimo avere due personalità. Nardina era la madre che doveva soffrire, Norina era la moglie che doveva agire, pronta a tutto per salvare i figli di Nardina”), comincia a rubare per finire in galera e placare la morte. È tutto così. Fino ai delitti: “I miei occhi non videro più nulla, le campane sonarono forti rintocchi, quasi come se il campanile fosse la mia testa, la campana il mio cranio. Non so non ricordo con certezza se trovai a portata di mano o cercai il martello che stessa la Setti mi aveva regalato. Ed in quel momento ricordai forse ciò che mi aveva detto Giuseppina Volpe nelle carceri di Lagonegro, che con una sola martellata il padre suo era morto. La martire sorseggiava il caffè io alzai il martello – Ermelinda Setti”».
Si tratta di un’autobiografia, di una raccolta di pensieri o che altro?
«Un’autobiografia, certo. In venticinque quaderni. Ordinata e divisa per capitoli, sicuramente rimaneggiata nello stile, verosimilmente dalle suore del manicomio. Scritta con uno stile molto retorico, gonfio di estasi d’affetto, abbracci, palpiti, un po’ come si scriveva allora, d’altronde. Era lo stile voluttuoso delle canzoni e dei film degli anni Quaranta, intendiamoci».
Certo che madre e figlio complici in azioni del genere non sono soliti nella cronaca nera. C’è un serial killer che, secondo te, per modus operandi somiglino alla Cianciulli?
«Donne serial killer ce ne sono molte più di quanto si creda. Donne depezzatrici, cioè che fanno a pezzi le loro vittime, molto rare: l’omicidio femminile resta comunque di stampo meno cruento di quello maschile, quasi sempre. Madri che uccidono insieme al figlio, mi vengono in mente solo Sasha e Lyudmila Spesivtev. Li arrestarono nel 1996, in Russia. Adescavano bambini nelle stazioni ferroviarie, li uccidevano a casa e poi ne mangiavano alcune parti. Ma, per fortuna, appunto, sono casi davvero rarissimi».
Gigi Montero per Crimen
IL LIBRO: