ESCLUSIVO/ Per la prima volta parla la famiglia Mottola, accusata e assolta in primo grado dall’accusa di aver ucciso Serena MolliconeEcco cos’hanno raccontato Franco Mottola e il suo pool difensivo a Cronaca Vera parlando con il giallista Rino Casazza
Il 26 ottobre è iniziato il processo di appello con imputati per l’omicidio di Serena Mollicone il maresciallo Franco Mottola, sua moglie Annamaria, il figlio Marco, e due carabinieri della caserma di Arce, Vincenzo Quatrale e Francesco Suprano.
Nel luglio del 2022 il giudice di primo grado li aveva assolti, nonostante l’opinione pubblica, sospinta da una larga parte della stampa, fosse convinta della loro colpevolezza.
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L’omicidio Mollicone, avvenuto ad Arce nel 2001, ha già dato vita, tra il 2003 e il 2006, ad un processo contro Carmine Belli, assolto in tutti i tre gradi di giudizio.
Del collegio difensivo degli attuali imputati fanno parte gli stessi consulenti che dimostrarono in giudizio l’innocenza di Belli. Alcuni degli argomenti decisivi per scagionare quest’ultimo sono gli stessi proposti anche nel processo in corso.
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Abbiamo intervistato il coordinatore del pool difensivo, il criminologo Carmelo Lavorino, il maresciallo Mottola e gli avvocati difensori Francesco Germani, Mauro Marsella, Piergiorgio Di Giuseppe, Enrico Meta .
Quali sono i cardini dell’impianto accusatorio, da voi smontati in primo grado?
Carmelo Lavorino: In questa inchiesta la ragione ha dormito, cullata da chi doveva risolvere il caso. La porta, contro cui incautamente alcuni consulenti dei pubblici ipotizzano esser stata fatta sbattere la testa della povera Serena, non è l'”arma del delitto” perché il segno trovatovi è incompatibile geometricamente e morfologicamente con l’altezza della vittima. Inoltre i frammenti di legno trovati sui capelli di Serena non provengono da quella porta. L’indagine è stata schiava del c.d. “innamoramento del sospetto della pista Mottola e dell’illazione a prescindere”. L’avvistamento che fece Carmine Belli di una ragazza che credeva essere Serena Mollicone non è del giorno della scomparsa (1 giugno) ma del giorno prima. Il ragazzo biondo mechato descritto da Belli strattonare una ragazza che secondo lui era Serena (ma enormi sono i dubbi che fosse davvero lei) non era Marco Mottola. Del resto lo stesso Belli non ha riconosciuto in Marco il ragazzo mechato.
Ci sono poi tre impronte digitali repertate sulla scena criminis, appartenenti senz’altro all’assassino o a un suo complice -, lo hanno detto tutti, anche gli accusatori dei Mottola – che non corrispondono a nessuno degli imputati. Quindi accusa chiusa… troviamo il proprietario di quelle impronte digitali: stop!
Come ha vissuto l’inchiesta che ha portato alla vostra incriminazione?
Franco Mottola: Contro di noi c’è stata una spaventosa e incivile campagna calunniosa, un vero e proprio tiro al piccione: hanno applicato il motto “L’uomo sospettato è sempre condannato. Se una persona è processata vuol dire che è colpevole”. Avremmo dovuto reagire con forza e con le querele contro chi faceva insinuazioni sul nostro conto, ma avevamo fiducia nell’obiettività degli inquirenti. Ribadisco che siamo innocenti.
Serena non è entrata in caserma il giorno del delitto. Il defunto collega Santino Tuzi, che l’ha sostenuto, ha mentito perché pressato psicologicamente. I nostri avvocati e i nostri consulenti hanno dimostrato la nostra estraneità provando i nostri alibi e demolendo l’impianto accusatorio. Tutto questo accanimento contro di noi e questa caccia alle streghe suonano d’offesa alla giustizia, al buon senso ed anche alla povera Serena, a suo padre Guglielmo ed ai suoi famigliari i quali hanno diritto che venga accertato il vero colpevole, non uno di comodo.
Chiediamo agli avvocati quale sia il loro pensiero su questa causa.
Sbagliano i mezzi d’informazione nel titolare “QUESTA VOLTA CI ASPETTIAMO GIUSTIZIA” oppure “CI SONO DEI DUBBI DA CHIARIRE”. Così danno erroneamente per scontato che l’assoluzione non sia stata giusta e sposano avventatamente l’impianto accusatorio. I giornalisti devono informare e raccontare, non proiettare il loro convincimento (dettato dagli inquirenti e dalla moda accusatoria?) nella mente dell’opinione pubblica. La sentenza di primo grado ha assolto tutti gli imputati e “bacchettato” la Procura di Cassino per avere chiesto un processo senza indizi e quei pochi portati si sono rivelati a favore degli imputati. La Procura di Cassino, invece di ammettere di avere sbagliato, sta continuando nell’errore.
La scelta di ascoltare nel processo d’appello 44 tra testimoni e consulenti per approfondire e valutare diversi e nuovi elementi investigativi che non sarebbero stati considerati o sufficiente esaminati in precedenza, nasce da un presupposto sbagliato, perché la Procura generale ha avanzato richieste inaccettabili, inammissibili e intempestive. Tutti sono stati ascoltati in primo grado, basti pensare che i pubblici ministeri ripetevano per diverse volte la stessa domanda per stressare i testimoni che non rispondevano come loro invece gradivano. Il maresciallo Tersigni è già stato ascoltato in primo grado due volte, il barbiere Ramon Iomni una volta, non vi sono testimoni nuovi ma solo lamentele per avere perso in primo grado. Le perizie sulla porta e sul pugno del m.llo Mottola potevano essere richieste in primo grado e sono inutili. Facile fare i ricchi col portafoglio degli altri. Nella fattispecie si spendono soldi, risorse e tempo del Popolo Italiano.
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Rino Casazza per Cronaca Vera
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