Il generale Luciano Portolano riuscì a sventare lo spionaggio russo ai danni dell’Italia? Ecco cosa fece l’allora capo del COI
Fu il generale Luciano Portolano ad impedire un possibile spionaggio russo ai danni dell’Italia. Lo rivela tra le righe il Corriere della Sera, tornato ad occuparsi a quanto avvenne nel 2020, precisamente ai due mesi di primavera, in cui la colonna militare con le insegne della Federazione russa iniziò a scorrazzare per la Lombardia.
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Secondo il New Yorker, grazie a quella spedizione Mosca avrebbe elaborato il vaccino Sputnik, ricavandolo dal Dna di un cittadino russo ammalatosi di Covid in Italia. In ogni caso c’è (molto) altro. Al convoglio inviato da Putin, a quei tempi in ottimi rapporti con l’allora premier Giuseppe Conte, venne assegnata una scorta di militari italiani.
Le parole del generale Portolano
A deciderlo fu il generale Luciano Portolano, che all’epoca guidava il Comando Operativo Interforze e aveva avuto uno scontro con il generale Sergej Kikot, capo della missione «Dalla Russia con amore». Dinnanzi alle insistenze di Kikot, che sosteneva di potersi muovere «su tutto il territorio italiano» in base a un «accordo politico di altissimo livello», Portolano rispose altrettanto duramente: «Qui siamo in Italia e si fa come (bip) dico io».
Il comandante del COI – raccontano più fonti della Difesa – stabilì le regole d’ingaggio, in base alle quali i russi si sarebbero dovuti mantenere «ad almeno cinquanta chilometri dai siti sensibili».
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Le stesse fonti rilevano come Portolano, in successivi colloqui operativi della Difesa, avesse paventato i rischi di un’operazione ibrida. Il primo indizio si ebbe quando i russi proposero di sanificare un’area del bresciano nelle vicinanze di Ghedi.
Lì c’è una base dell’aeronautica militare italiana – nella quale opera il 61.mo Stormo – che nei piani dei sovietici ai tempi della Guerra Fredda era considerata un obiettivo da distruggere, perché in una parte riservata all’aviazione statunitense sarebbero state custodite una dozzina di bombe nucleari. La richiesta di Kikot venne ovviamente respinta, mentre alla Difesa saliva l’insofferenza verso «gli ospiti».
Già il titolare del dicastero, Lorenzo Guerini, non aveva accettato di buon grado la missione di Mosca e aveva ridotto da 400 a 104 unità il suo contingente. A maggio decise di rimandare tutti a casa. Accadde dopo che i russi chiesero di spostarsi in Puglia, regione a loro assai cara perché – questa fu la tesi – è la terra di san Nicola, venerato anche dagli ortodossi, al punto che Putin donò una statua del santo e la fece porre davanti alla basilica di Bari. Le motivazioni religiose furono il secondo (e decisivo) indizio che l’obiettivo di Kikot non fosse quello di sanificare il territorio.
A parte il fatto che l’epicentro della pandemia continuava a essere la Lombardia, e che in Puglia i casi di Covid erano limitati, proprio in quella zona c’era un altro «sito sensibile»: Amendola, il maggior aeroporto militare italiano, dov’ è di stanza il 32.mo stormo con le macchine tecnologicamente più avanzate. Gli F-35. Era il momento di dire ai russi «dasvidania». Non è ancora il momento di dire che il caso è chiuso.
Già di quella spedizione russa in Italia restano tuttora tante cose da capire e approfondire.
Stefano Mauri
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