Dopo la condanna all’ergastolo in primo grado, l’infermiera Fausta Bonino è stata assolta con formula piena dall’accusa di aver ucciso diversi suoi pazienti. Per la Procura aveva ammazzato dieci persone, come i famigerati serial killer da corsia denominati “angeli della morte”. Invece no. Era solo un grande errore…
LIVORNO – Quando tre anni fa la Procura chiese l’ergastolo per Fausta Bonino, l’infermiera oggi sessantenne dell’ospedale di Piombino, Cronaca Vera si pose subito dei dubbi, chiedendosi se ci trovassimo di fronte ad una serial killer o ad un grande abbaglio, con una “innocente schiacciata da prove ingiuste”. La risposta, dopo la condanna al carcere a vita del primo grado per l’omicidio di quattro pazienti sui dieci contestati, è arrivata dalla Corte d’Assise d’Appello di Firenze: assoluzione con formula piena.
Una decisione che la donna ha accolto così, parlando con La Stampa: «È trascorso così tanto tempo da quando è iniziata questa storia che non riesco ancora a credere di essere stata assolta. Ho vissuto sei anni da incubo, con addosso il peso di un’infamia terribile, non so nemmeno come descriverli. A questo processo, a differenza del primo, ci sono andata molto impaurita».
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Gli angeli della morte
Sono vicende piuttosto delicate quelli che passano sotto il nome di Angeli della Morte, medici o infermieri accusati di uccidere nelle corsie i pazienti che dovrebbero curare. Molto spesso le accuse arrivano a distanza di parecchio tempo dalla morte dei pazienti e c’è il forte rischio di incappare in equivoci.
Lo abbiamo visto anche con Daniela Poggiali, l’infermiera di Lugo, che tutti ricordano per il macabro selfie sorridente di fianco ad una donna moribonda: condannata in primo grado per omicidio, è stata infine assolta. Segno di quanto indiziari siano questi processi.
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Il procedimento contro l’infermiera di Piombino, da subito appariva ancora più difficile da districare. Venne arrestata per aver ucciso alcuni pazienti dell’ospedale iniettando loro eparina, un farmaco anticoagulante, anche quando non era prescritto o andando in sovradosaggio, provocando così emorragie letali. Gli inquirenti avevano dalla loro perizie che ritenevano ci fosse un nesso tra i decessi e la somministrazione del farmaco avvenuta poche ore prima.
Ma, anche all’inizio, non tutto era così chiaro. Quando Fausta fu fermata all’aeroporto di Pisa di rientro da un viaggio a Parigi, dove vive uno dei suoi due figli, i vicini di casa si dissero stupiti. La descrissero come una persona perbene, tanto da non credere alle accuse. Le colleghe la dipinsero come metodica e ligia al dovere.
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L’indagine partiva tuttavia da un dato: il numero di pazienti morti quando di turno c’era lei. Avevano tra i 61 e gli 81 anni. Furono diffuse anche intercettazioni della donna. In alcune sembrava incredula: «Io me li sogno di notte, non è possibile che tutte queste persone muoiano quando ci sono io».
E ad una collega, rivelava di volersi fare un elettroencefalogramma: «…avrò avuto…epilessia. Dei momenti… ho cominciato a dubitare di me stessa, ho cominciato a dire: avrò mica dei momenti in cui non sapevo quello che facevo? Ma ti rendi conto? Poi ho detto: no».
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Però, dopo 21 giorni di carcere, il Tribunale del Riesame, la rimise fuori, ritenendo gli indizi non così forti. In primo grado, prima della sentenza, Fausta giurò al Corriere della Sera: «Che poi non sia io l’infermiera killer lo dicono i fatti. Non è vero che ero sempre presente alla morte delle persone, non ci sono prove né indizi che abbia iniettato l’eparina. E soprattutto non si è indagato a dovere». Sostenne che si fosse anzi indagato a senso unico su di lei seguendo «una tesi accusatoria precostituita».
E aggiunse: «Io ho sempre salvato le vite delle persone. Uno dei due miei figli è un medico: il giuramento d’Ippocrate vale per entrambi. Quando mi arrestarono, il pm si era battuto contro la mia scarcerazione, che poi ho ottenuto. Sosteneva che io avrei potuto uccidere mio marito e i miei figli. Sono passati tre anni e mezzo, godono se dio vuole di ottima salute e ci vogliamo molto bene».
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Fine di un incubo
Oggi ricorda a La Stampa che i momenti più duri sono stati tanti: l’arresto, la sentenza di primo grado e i 21 giorni di prigione: «Di quel periodo ricordo che l’unico momento di felicità sono state le tre volte che ho visto mio marito e il mio figliolo. Sono stati giorni sconvolgenti, non sapevo nemmeno se era realtà quello che mi stava capitando. Sono cose difficili da descrivere con le parole».
E rammenta le parole degli ex colleghi al processo, che l’hanno difesa: «Hanno testimoniato la verità. Loro, come tutte le persone che mi conoscono, mi hanno sempre ritenuta innocente.
In questi giorni ho avuto un sacco di manifestazioni d’affetto: dal sindaco di Saliceto in provincia di Cuneo dove sono cresciuta ai conoscenti di Mondovì dove ho fatto le scuole, e poi ovviamente da Piombino e dall’isola d’Elba dove vivo dal 1980. La gente mi chiama e mi dice: “Finalmente è finita”. “La verità è venuta fuori”».
Quanto ai parenti di quei pazienti defunti, dice che le fanno molta pena, a partire da coloro che si erano costituiti parte civile e che non ha mai osato avvicinare «e nemmeno loro l’hanno fatto. Io credo che non si possa più sperare che queste famiglie trovino la serenità e mi dispiace perché temo che non sapranno mai la verità».