Lo definirono “il più grande scandalo della Repubblica”. Dissero che aveva intercettato 350mila persone e che l’archivio informatico di Gioacchino Genchi fosse pieno di segreti. Erano tutte balle. Ora lo dice pure la Cassazione
Nel 2008 scrissi con Felice Manti “Il grande abbaglio”, sostenendo l’innocenza di Olindo Romano e Rosa Bazzi. Con tutta la stampa contro, diventammo subito due appestati del giornalismo. L’anno successivo, non bastasse l’ostracismo cui ero andato incontro raccontando una versione diversa della strage di Erba, incappai nel caso Genchi.
L’avevano definito «il più grande scandalo della Repubblica».
L’Adnkronos ricorda oggi che l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, aveva esternato che «l’affare Genchi è gravissimo, per la rete di tabulati e intercettazioni che tiene per sé nel suo archivio personale: saranno coinvolte tante persone innocenti; il Pd avrebbe dovuto attaccare Genchi per primo, senza aspettare che si scatenasse Berlusconi; l’operazione che Berlusconi sta innescando è una battaglia più che giustificata».
Balle.
Ma per mesi l’intera stampa si schierò contro di lui.
Scrissero che aveva intercettato almeno 350mila persone.
Il Ros guidato dall’allora colonnello Pasquale Angelosanto circondò il suo palazzo, come se fosse un boss, per sequestrargli il famigerato “archivio”, con l’inchiesta incardinata a Roma dai procuratori aggiunti Nello Rossi e Achille Toro per il suo lavoro svolto come consulente del pm Luigi de Magistris in Why Not e Poseidone. Ogni giorno sui quotidiani e in agenzia ne usciva una. Nemmeno una voce contraria.
Eppure, almeno quanto me, i giornalisti che si occupavano di giudiziaria e innumerevoli magistrati ed esponenti della polizia sapevano chi fosse il vicequestore aggiunto Gioacchino Genchi. Sapevano che non c’era mai stato alcun archivio segreto e che tutti i dati in suo possesso arrivavano di volta in volta da incarichi ufficiali giunti da decine di Procure e Tribunali.
Sapevano che non aveva mai fatto un’intercettazione in vita sua, limitandosi ad analizzare, sempre dietro incarichi ufficiali, quelle svolte dalle forze dell’ordine.
Sapevano del suo passato.
Genchi era infatti la persona che aveva recuperato il contenuto dell’agenda elettronica Casio di Giovanni Falcone, risultata cancellata in maniera non accidentale dopo il sequestro.
Era la stessa persona che aveva abbandonato le indagini sulle stragi il 5 maggio del 1993 dopo una lite furiosa con Arnaldo La Barbera perché non condivideva il modo di svolgere quelle stesse indagini, risultate di recente il frutto di un depistaggio.
E aveva pagato con l’isolamento il suo mettersi di traverso.
Per dieci mesi lavorai al libro “Il caso Genchi” alla cui uscita fece eco un’infinita serie di polemiche (ci fu pure chi invocò la convocazione del Copasir), richieste di sequestro e querele di autorevolissimi esponenti istituzionali, magistrati di primissimo piano nell’Anm, generali, ufficiali dei carabinieri e dirigenti di polizia.
In uno di questi innumerevoli processi, sempre passati sotto silenzio, avremmo poi chiesto anche la testimonianza proprio di Napolitano, che ci fu respinta.
Di fatto, nel 2016 il Garante della Privacy multò pure Genchi per 192mila euro snocciolando un numero enorme di violazioni nel suo archivio che non ci sono mai state, come avrebbe stabilito successivamente il tribunale di Palermo e che ora ha sancito definitivamente la Cassazione: l’archivio di Genchi era regolare, nessun illecito. Trattavasi di bufala, o fake news come si dice oggi, a reti unificate. Come era chiaro fin dall’inizio.
Così come era chiaro, nelle mille pagine di quel libro, che nulla in Why Not e Poseidone potesse giustificare tutto quanto gli accadde nel 2009, sospeso prima e radiato poi, travolto da sospetti di ogni sorta, prima che i tribunali, molto tempo più tardi, gli dessero ragione in pieno, reintegrandolo con tante scuse.
Genchi, che oggi fa l’avvocato, dice all’Adnkronos: «C’era un disegno per farmi fuori, ne sono sempre stato convinto. Io fui sospeso dal servizio in Polizia dopo essere stato sentito dai pm sulla strage di via D’Amelio, in seguito alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza. La sospensione dal servizio in Polizia arriva nel 2009, dopo che vengo sentito dai pm Sergio Lari e Nico Gozzo in seguito alle dichiarazioni del neo collaboratore Gaspare Spatuzza. Sono stato sospeso per un post su Facebook. E poi venni destituito per un mio intervento a un convegno».
Ci sono voluti tredici tormentati anni di ostracismo e silenzi perché la verità venisse a galla.
Olindo e Rosa sono in carcere da quindici. Verrà presto anche il loro momento.
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L’articolo de Il Giornale sul caso dell’archivio Genchi – QUI