Lo Stato aveva lasciato sola Adelina, nonostante da oltre 15 anni avesse fatto sgominare il racket della prostituzione che l’aveva tenuta prigioniera. Nell’ultimo documento le avevano rimesso la cittadinanza albanese e scritto che lavorava (ma era invalida al 100%), facendole perdere così pure il sussidio. Aveva protestato e si era trovata in mano un foglio di via. Così ha deciso di farla finita
ROMA – Lo aveva detto in un video su Facebook: «Ora la faccio finita. Mi troveranno in una bara». E lo ha fatto davvero. È morta così, a 47 anni, Alma Sejdini, nota in tutta Italia come Adelina, ex prostituta albanese che aveva fatto sgominare il racket ancora moltissimi anni fa. Da allora attendeva la cittadinanza italiana, mai arrivata. Da ultimo, come ennesima beffa, il cambio di documenti che le avevano di fatto tolto anche i sussidi e i suoi ultimi diritti.
Aveva sempre avuto una fiducia enorme nella giustizia italiana e nelle forze dell’ordine. Ma quando è andata a protestare a Roma per l’inconcepibile cambio dei documenti, malata di un cancro contro cui combatteva da tempo e senza più assistenza, si è trovata tra le mani un foglio di via. Sicché prima ha tentato di darsi fuoco. Poi, salvata, si è buttata giù da un cavalcavia ferroviario, ponendo fine ad una vita combattiva, ma estremamente infelice, vissuta in enorme solitudine, con lo Stato che l’ha usata per sgominare le gang albanesi, ma che non le ha mai dato la cittadinanza che meritava. Cronaca Vera l’aveva incontrata la prima volta nel lontano 2007.
L’INCONTRO
Ogni notte, all’epoca, rischiava la pelle, avvicinando le ragazze per strada, facendo volantinaggio, cercando di convincerle a ribellarsi. L’ultima sua iniziativa era stata convincere i sindaci di Tradate e Saronno, nel varesotto, a ritirare l’ordinanza con cui si volevano multare le tante prostitute che affollano i viali della zona. «Per loro – ci disse – sarebbe stato solo un massacro, nuove botte dagli sfruttatori». Aveva 33 anni e l’aria malinconica di chi ripensa sempre alla gioventù che le hanno rubato. Si faceva chiamare solo Adelina, e arrivava da Durazzo, in Albania. La famiglia l’aveva rinnegata perché “disonorata”. Colpevole di essersi fatta schiavizzare, a vent’anni. «La mia vera famiglia è stata la questura di Varese, che mi ha salvato dopo tre anni passati all’inferno» raccontava.
Otto anni prima era stata liberata e da allora era lei a tentare di salvare altre ragazze finite nel racket, andandole a prendere una per una, parlando, cercando di far capire che denunciando esiste una via d’uscita. «E tante sono le ragazze che sono riuscita a convincere». Scrisse un libro, “Libera dal racket”, e ci disse: «Io sono stata sequestrata davanti a casa, nel ’96. Mi hanno caricato su un’auto, portato in un albergo e massacrata di botte. Ero ancora vergine. Mi hanno trasferito in Grecia, costringendomi a prostituirmi. Ecco, questo succedeva e succede ancora a molte nel mio Paese». Per addomesticarla le avevano aperto una gamba con un coltello, buttandoci il sale sopra, le avevano spento sigarette sul petto, bastonate, calci e pugni che le avevano rotto tutti i denti. Trenta, quaranta clienti al giorno. Sotto la media, ancora botte. «Quando riuscii a scappare dall’appartamento in cui ero rinchiusa se non lavoravo, corsi per strada sanguinante. Urlavo. Si fermò un’auto della polizia. Denunciai ogni cosa. Subito dopo mi portarono al confine, dove fui presa in custodia dai loro colleghi albanesi. E fu proprio un poliziotto di Tepelena a rivendermi a un boss. Ecco, capisci perché non è facile fidarsi delle forze dell’ordine per noi? Là, al mio Paese, la corruzione c’era ovunque. Più scappi, e peggio è. Non hai vie d’uscita. Quando, all’ennesima fuga arrivai a casa, i miei nemmeno mi volevano. Mi tagliarono i capelli a zero, segno del disonore. Ma poi mio nonno e uno zio mi violentarono».
E un nuovo sequestro, con la famiglia che lascia fare per paura. E i viaggi in gommone verso l’Italia, la vendita di banda in banda. «Fino a che, a Varese, fui avvicinata da alcuni poliziotti. Io non avevo alcuna fiducia. Ma quelli tornavano, e mi parlavano da amici, come mai mi era capitato. Mi lasciarono un biglietto con un numero di telefono. Lo nascosi in un muretto, ero terrorizzata sul da farsi. E, alla fine, chiamai. I miei angeli, li definisco così». Adelina fu la prima ragazza ad aderire all’articolo 18 sullo sfruttamento della prostituzione: venne accolta in una comunità a Como per qualche mese, i suoi aguzzini, 40, tutti condannati. I carabinieri di Tricarico la chiamarono come interprete. Rifiutò premi e onorificenze. Divenne presidente di “Sos Italia Libera”: «Ma la vera cosa che vorrei è la cittadinanza italiana. La mia famiglia è l’Italia». La chiamarono in tv, ma nessuno le offrì un lavoro. Scrisse altri libri, si impegnò con i City Angels. Ma rimase sempre sola.
LA MORTE
Ammalatasi di cancro, le venne riconosciuta l’invalidità al 100%. Ma all’ultimo rinnovo del permesso di soggiorno non veniva più definita apolide, ma albanese: «Non solo, c’è scritto che lavoro. Di conseguenza non posso più avere i sussidi e la pensione d’invalidità che mi serve per vivere» ha spiegato disperata Adelina, in attesa di una casa popolare. Ha protestato a Roma, nessuno le ha dato retta. Si è data fuoco per farsi ascoltare: «Ho presentato la domanda per avere una casa popolare, ma adesso me la sogno. I documenti non corrispondono più. E non posso accettare la cittadinanza albanese, dal momento in cui me l’hanno scritto ho gli incubi. Mi ammazzo piuttosto». Il risultato è stato un foglio di via obbligatorio dalla polizia, proprio quella polizia che definiva “i miei angeli” e in cui avrebbe tanto voluto entrare. Un foglio di via con tanti saluti alla sua vita sacrificata per aiutare lo Stato italiano. E lei si è ammazzata davvero.