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Stragi del ’92, due o tre cose che Michele Santoro dimentica nel suo libro sul killer Maurizio Avola

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Secondo Michele Santoro a compiere la strage di via D’Amelio fu soltanto Cosa Nostra. Eppure sono molti gli elementi che ritengono a pensare ben altro. Eccoli

Si discute da giorni sull’ultimo libro di Michele Santoro, con l’ambizioso titolo Nient’altro che la verità. Ambizioso perché è un’intervista ad un killer pentito di Cosa Nostra, peraltro nemmeno un boss della Cupola. E che la sua sia “nient’altro che la verità” lascia già perplessi dal titolo. C’è addirittura chi si spinge a pesanti accuse. Per Enrico Deaglio il racconto di Avola «è un depistaggio (che è un reato)», stesse parole dette al Fatto dall’ ex pm Antonino Ingroia, per Claudio Fava il libro è «uno sputo in faccia a ogni verità». Vediamo nel dettaglio i passaggi salienti.

IL LIBRO

Sono passati 29 anni dalle stragi e ancora non sappiamo tutto sugli esplosivi utilizzati. Nel senso che i pentiti ogni tanto aggiungono qualcosa. Maurizio Avola, killer catanese dei Santapaola, sono 25 anni che collabora. A Michele Santoro giura che fu lui, insieme ad altri due, a imbottire di esplosivo la 126 che esplose in via D’Amelio. Non solo. Dopo aver atteso in un palazzo messo a disposizione da Giuseppe Graviano, avrebbe fatto su e giù da Palermo, finchè, saputo dalle vedette che Paolo Borsellino sarebbe andato dalla madre, dentro un furgone si sarebbe cambiato per poi scenderne vestito da poliziotto e dare il segnale a Graviano per azionare il telecomando: «Guardo per l’ultima volta il giudice fermo davanti al citofono. Ha gli occhi rivolti al cielo, con la sigaretta accesa tra le labbra. Mi sembra sospeso nel vuoto con la sigaretta accesa. Sono l’ultima persona che incrocia il suo sguardo. È un’immagine che mi rimarrà attaccata alla pelle tutta la vita. La rivedo continuamente. Come se fosse ieri».

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Peccato che sia un bel pezzo che Avola ha raccontato questa storia al procuratore di Caltanissetta Gaetano Paci, il quale ha accertato come il giorno prima Avola fosse a Catania con un braccio ingessato. Difficile riempire un’auto di esplosivo con un braccio solo. Figuriamoci indossare una divisa di poliziotto. Ma Santoro è sicuro: «Avola sta demolendo molte ricostruzioni dietrologiche. I servizi segreti che intercettano la linea telefonica della madre del magistrato e ordinano l’inizio dell’azione, il centro d’ascolto posizionato sul monte Pellegrino con complicati congegni per far esplodere la bomba. Non c’è stato niente del genere. Via D’Amelio è il momento culminante di un’azione militare a tappeto e di una caccia all’uomo realizzata con punti di avvistamento, staffette e presidi».

Già, staffette e presidi: peccato, di nuovo, che la targa da mettere sulla 126 fu rubata il 18 luglio e il 19 Borsellino passò da lì solo perché alla madre era saltata una visita specialistica il giorno prima. I mafiosi dovevano dunque essere certi che Borsellino arrivasse, altro che su e giù tra Catania e Palermo: altrimenti che ne sarebbe stato dell’autobomba? Se il magistrato non fosse passato, i corleonesi avrebbero fatto su e giù con la 126 esplosiva? Ma Santoro dà credito totale ad Avola, d’altra parte il libro si chiama “Nient’altro che la verità”. Quindi per lui fu solo Cosa Nostra.

I FATTI

Ma tante, troppe cose non tornano per pensare che davvero le stragi siano opera solo della mafia. Ne elenco solo alcune.

Il 19 luglio un cellulare clonato aveva fatto chiamate che andavano dalle zone di Villagrazia di Carini a via D’Amelio: lo stesso percorso che quel giorno aveva fatto Paolo Borsellino. Tutti i pentiti raccontarono di aver usato cellulari clonati solo dopo le stragi: l’allora commissario capo Gioacchino Genchi scoprì che non era vero. Ce n’era uno anche a Capaci, anche se nessuno seppe dire a chi apparteneva e la Dia escluse fosse stato clonato. Eppure non poteva funzionare: era stato rubato il 15 aprile e cessato il 21 dello stesso mese. E per andare andava benissimo: chiamò tre volte in Minnesota quel pomeriggio. I telefoni di Nino Gioè e Gioacchino La Barbera, registi della strage di Capaci, clonavano due numeri facenti «parte di un arco di numerazione prevista e non ancora assegnata» dalla Sip a Roma in una filiale dove poi fu accertato ci fosse una base coperta dei servizi. Come sia  possibile, nessuno ha mai approfondito.

Di certo è rischioso credere solo ai pentiti. Ad esempio tutti quelli del commando di Capaci hanno detto di aver scoperto che Giovanni Falcone scendeva a Palermo di sabato per averne pedinato i movimenti negli ultimi quindici giorni prima di sabato 23 maggio 1992. Peccato che Falcone, stando alla sua agenda elettronica Sharp, negli ultimi due mesi fosse non fosse mai sceso a Palermo di sabato. Perché allora tutti abbiano usato questa versione, non si sa.

La seconda delle sue agende elettroniche, una Casio, fu ritrovata cancellata in maniera non accidentale solo dopo il suo sequestro. Improbabile che stata Cosa Nostra o qualche politico corrotto, no? All’interno c’era appuntato un viaggio in America. Secondo autorevoli testimoni istituzionali, anche statunitensi, Falcone ci era andato per incontrare Tommaso Buscetta per capire cosa stesse succedendo dopo il delitto di Salvo Lima. I magistrati di Caltanissetta non vollero approfondire nemmeno analizzando le sue carte di credito, per non violarne in sostanza la privacy. E il ministero della Giustizia si limitò a smentirne il viaggio, senza dire mai dove fosse però Falcone in quei giorni, dato che i suoi telefoni non funzionarono, come se si trovasse all’estero.

Di sicuro, contrariamente a quanto raccontò Buscetta, Falcone voleva sentirlo già da mesi, perchè il 15 ottobre 1991, davanti al Csm dove doveva difendersi dalle accuse di Leoluca Orlando, disse: «Mi risulta che uno di questi (pentiti ndr), forse il piu importante, dopo due, tre anni che aveva deciso di chiudere il rubinetto delle dichiarazioni, adesso intende riprenderlo. Credo di aver capito il motivo per cui lo fara. Intendiamo accertarlo». Non c’è bisogno di uno scienziato per capire che Falcone parlasse di lui quando diceva «il più importante»: lo aveva definito così anche in Cose di Cosa Nostra. Forse il magistrato si era segnato di più sul suo pc a Roma. Ma al posto di quel file sulla sua difesa al Csm, ce n’era un altro, orlando.bak, modificato dopo la sua morte, con l’ufficio già sotto sequestro. Sarà stato Riina.

Edoardo Montolli 

(post parzialmente tratto dall’articolo di Edoardo Montolli e Felice Manti apparso su Il Giornale)

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Edoardo Montolli

Edoardo Montolli, giornalista, è autore di diversi libri inchiesta molto discussi. Due li ha dedicati alla strage di Erba: Il grande abbaglio e L’enigma di Erba. Ne Il caso Genchi (Aliberti, 2009), tuttora spesso al centro delle cronache, ha raccontato diversi retroscena su casi politici e giudiziari degli ultimi vent'anni. Dal 1991 ha lavorato con decine di testate giornalistiche. Alla fine degli anni ’90 si occupa di realtà borderline per il mensile Maxim, di cui diviene inviato fino a quando Andrea Monti lo chiama come consulente per la cronaca nera a News Settimanale. Dalla fine del 2006 alla primavera 2012 dirige la collana di libri inchiesta Yahoopolis dell’editore Aliberti, portandolo alla ribalta nazionale con diversi titoli che scalano le classifiche, da I misteri dell’agenda rossa, di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti a Michael Jackson- troppo per una vita sola di Paolo Giovanazzi, o che vincono prestigiosi premi, come il Rosario Livatino per O mia bella madu’ndrina di Felice Manti e Antonino Monteleone. Ha pubblicato tre thriller, considerati tra i più neri dalla critica; Il Boia (Hobby & Work 2005/ Giallo Mondadori 2008), La ferocia del coniglio (Hobby & Work, 2007) e L’illusionista (Aliberti, 2010). Il suo ultimo libro è I diari di Falcone (Chiarelettere, 2018)

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