Riprendo la recensione, uscita per il blog Gialloecucina, del libro “Anche le parole sono nomadi. I vinti e futuri vincitori cantati da Fabrizio De André“ pubblicato dalla Fondazione dedicata all’indimenticabile cantautore genovese. Le canzoni del grande “Faber”, a vent’anni dalla morte, oltre ad essere diventate veri e propri classici della musica popolare moderna, continuano a suscitare interesse per la loro ricchezza di risvolti culturali e di costume.
Fernanda Pivano, grande intellettuale oltre che critico letterario di spessore internazionale, considerava Fabrizio De Andrè uno dei più significativi poeti italiani del dopoguerra, degno di essere accostato ai grandi autori solo letterari, come ad esempio Eugenio Montale o Vittorio Caproni, per citarne due conterranei di De Andrè, il primo universalmente conosciuto e il secondo meno famoso anche se egualmente eccelso ( giudizio personale).
La recente antologia “Anche le parole sono nomadi”, a cura della Fondazione Fabrizio De Andrè Onlus, con introduzione di Dori Ghezzi e postfazione di Erri De Luca, fornisce un contributo interessante all’argomento.
Si tratta di una raccolta di testi di molte canzoni di successo del cantautore genovese, accompagnate da autocommenti di quest’ultimo, tratti dai discorsi tenuti al pubblico durante i concerti, tra un’esecuzione e l’altra, e dai suoi diari.
Il titolo è un chiaro riferimento al significato sempre nuovo delle parole, mai immobili e compiutamente definite, protagoniste di un cammino che non finisce mai.
De Andrè era consapevole di questa irrequietezza vitale delle parole, tanto da dire delle sue, con una frase emblematica:” Ieri cantavo i vinti, oggi i futuri vincitori: i nomadi, le infinite princęse, chiunque coltivi le proprie diversità con dignità e coraggio, attraverso i disagi dell’emarginazione con l’unico intento di assomigliare a sé stesso.”
Il libro è prezioso per illuminare il motivo ispiratore e i retroscena compositivi di molte canzoni memorabili del grande “Faber”.
Si viene a scoprire, ad esempio, che “Khorakhané” è il nome di una tribù rom fedele al Corano, ammirata da De Andrè per la sua libertà e il suo pacifismo. ” Meriterebbero il Nobel per la pace per il solo fatto di girare il mondo da 2000 anni senza portare armi” disse in un concerto al teatro Brancaccio.
Quanto alla surreale e ariosa “Amico fragile”, fu il frutto polemico di una esecuzione improvvisata di fronte a un pubblico detestabile per la sua tronfia insensibilità.
Da rimarcare la rivelazione che il leit-motiv dell’album “Non al denaro, né all’amore né al cielo” è l’invidia nelle sue molteplici forme, mentre viene ben sviluppato e articolato quanto si intuisce immediatamente ascoltando “La buona novella”, ovvero che questo celebre 33 giri ha al centro la grandezza e e la dignità dell’uomo di fronte al divino.
E si potrebbe continuare : “Se ti tagliassero a pezzetti” è la metafora della libertà immortale che appunto, anche se “tagliafa a fettine”, sopravvive e resuscita; “La cattiva strada”, scritta assieme a De Gregori, è dedicata a Nietzsche e Cristo, entrambi considerati rivoluzionari incompresi; “Andrea” è un inno liberatorio a lasciare che i bimbi si sporchino felicemente andando per strada; “Creuza de ma”, composta in quel suggestivo finto genovese, aspira, partendo dal natio capoluogo ligure, ad abbracciare tutte le lingue e tutte le diverse sonorità del Mediterraneo.
E la disputa “cantautore o poeta”?
Non so se avete mai provato a leggere sulla carta i leggendari testi di Mogol musicati e cantati da Lucio Battisti.
Gli manca qualcosa, vero? Eppure, ascoltandoli sembrano il massimo del lirismo, tanto da gareggiare, almeno per chi continua a viverli come colonna sonora della propria giovinezza, coi versi più emozionanti di Leopardi.
Il motivo è semplice: la ritmica della musica non corrisponde alla metrica della poesia.
Così, anche se, effettivamente, in alcuni casi, De André è riuscito a comporre testi validi sia se fruiti insieme alla musica sia se letti come poesie ( penso a “Verranno a chiederti del nostro amore”, o “Ave amaria”) e son quelli che più si svincolano dal ritmo di ballata imposto dai tempi musicali, bisogna concludere che “Faber”, come lui stesso sosteneva contraddicendo l’elogio di Fernanda Pivano, non ha scritto poesie ma versi per canzoni.
Una cosa diversa.
Tuttavia, come non si può stabilire se sia meglio l’opera lirica o la musica sinfonica, oppure il racconto breve o il romanzo, trattasi di generi creativi con pari dignità.
Ne ero convinto ben prima che Bob Dylan vincesse il premio Nobel per la letteratura, e continuo ad essere di questo parere.
Nessuno potrà mai negare che nei testi di De André si tocchino vertici di profondità meditativa, eleganza descrittiva e originalità di metafore che rimarranno nel tempo.
Rino Casazza
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