La coraggiosa denuncia di Emilio Grimaldi, il più noto blogger antimafia calabrese, che sognava di diventare prete e che vide il suo sogno diventare un incubo. Il suo racconto a Fronte del Blog.
C’è in giro un prete pedofilo. In regolare servizio. Non si tratta di creare allarmismi. Si tratta di una storia dannatamente vera di un bimbo, Emilio Grimaldi, che sognava di votarsi a Dio e che invece quel prete ha seviziato per anni. Ce ne sono voluti venti perché quel bimbo, ormai cresciuto, avesse il coraggio di raccontare l’accaduto. Lo ha fatto in un durissimo libro, “Il giovane Emilio”, Città del Sole edizioni. E, chissà, forse è per trovare questo coraggio che da anni è diventato uno dei più noti, se non il più noto, blogger antimafia della Calabria.
«Dici? Sai, anche a me è venuto questo dubbio. Che siccome allora mi mancò il coraggio ora, invece, cerco di manifestarlo ad ogni piè sospinto. Non so cosa rispondere, dovrebbe essere uno psicologo a riferirlo con la dovuta spiegazione. Però c’è una cosa che mi porta a dire di no, così: di primo acchito, un discrimine che separa in modo inconfutabile le mie “due” vite, quella del seminario e questa di oggi come giornalista e scrittore. È il piacere, del tutto intellettuale, a muovere la mia penna adesso. Un piacere che diventa bisogno, come il respiro. Da ragazzo, invece, provavo solo sofferenza ed umiliazione. Se fosse un riscatto il mio, invece, proverei odio».
IL BLOG
Emilio Grimaldi sul suo sito, emiliogrimaldi.blogspot.it, denuncia collusioni e mafiosi, crimine organizzato e porcherie istituzionali. Incappando talvolta, com’è ovvio, in querele da parte delle personalità più disparate.
«Il blog l’ho aperto nel mese di gennaio 2009. Le querele sono un bel ginepraio. A mente ne ricordo 16 che mi riguardano personalmente. Di cui 2 si sono concluse positivamente per me, gli altri procedimenti, invece, sono ancora in itinere. Ma non ci sono solo le querele contro di me, quale responsabile del blog, vi sono dei fascicoli aperti dalla Procura anche per alcuni commenti lasciati sul mio spazio web».
L’INFANZIA
Partiamo dall’inizio.
«A otto anni ero chierichetto e volevo diventare prete. Sarei stato diverso a quello del mio Paese, Belcastro, che picchiava i ragazzi che non lo assecondavano e che si faceva pagare per ogni messa che diceva. Un giorno, doveva venire il Papa a Crotone e scappai di casa per incontrarlo. Alla fine mi persi e fortunatamente mi riportarono a casa. A 11 anni entrai in seminario».
Pensa ad una vita migliore, invece no.
«Campanella alle ore 6 e 30. Lodi alle 7. Messa e colazione. Alle 8 scuola, al pomeriggio tre ore di studio. Quindi cena, televisione e a letto. In una camerata di 23 posti letto e senza, ovviamente, alcuna ragazza. Ma fin qui era normale, anche se molti seminaristi non avevano la vocazione. I genitori li mandavano lì perché studiassero meglio».
L’ARRIVO DI DON C.
La cosa più importante è che dunque, senza ragazze e giovanissimo, del sesso Emilio non sa nulla. Ne sa invece qualcosa Don C., che arriva per insegnare. Un amicone. «Stava con noi dalla mattina alla sera. E si occupava dei contatti con le istituzioni. Non era un sacerdote. Però “stava concludendo il suo cammino”. E la vocazione “da grande” era qualcosa di speciale, ci dicevano. Perché Gesù chiamava non solo i bambini e li guidava puri e casti fino al sacerdozio non permettendo loro di fare tutte le esperienze che fanno tutti gli altri, ma anche quelli che “erano stati nel mondo” e che l’avevano conosciuto».
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GLI ABUSI
Come riuscì Don C. ad avvicinarti?
«Il clima che si respirava nella struttura era condizionato dalla piena fiducia dei genitori verso il rettore. E dal rettore che ci diceva che se ci fossimo “comportati male” l’avrebbe riferito ai nostri genitori. Avevamo timore dei suoi rimproveri. Don C. era diverso. Non ci sgridava mai. Ci aiutava nei compiti di scuola, come un fratello maggiore. Tra i ragazzi lui individuava quelli che avevano contatti più sporadici con i genitori, cioè quelli che venivano dai paesi più lontani, e quelli che, apparentemente, erano più docili, più inoffensivi, psicologicamente più deboli. Come me. Iniziò con un abbraccio. Mi abbracciava e mi invitava nella sua stanza. Era un “adulto”. Io, piccolo com’ero, non riuscivo a percepirlo come un abuso su di me».
Nel libro racconti di rapporti sessuali patiti, della vergogna provata senza nemmeno sapere cosa stessi subendo e delle sevizie peggiori che lui ti inflisse. Tuttavia, con Don C sei rimasto legato 8 anni. Perché?
«Era l’unico “amico” che avevo. Non avevo nessuna considerazione del “reato” e dell’ “abuso”. Ero solo un ragazzo e pensavo, sbagliando, che la Chiesa accettasse queste cose perché fanno parte della “debolezza della carne”. Non lo odio, più che altro me la sono presa con me stesso».
Come si esce psicologicamente da una situazione del genere?
«Non si esce. Nelle relazioni interpersonali, nei rapporti con l’altro sesso e soprattutto con se stessi. Ho sofferto di psicosi maniacodepressive per parecchi anni. L’aver tenuto tutto dentro, le mie energie, intellettuali e psicologiche, impegnate a nascondere l’abuso e a sublimarlo a forza come “peccato da perdonare”, sulla falsa riga dell’educazione ricevuta, mi ha scatenato una battaglia contro me stesso».
LA FINE DI DON C.
Quando l’hai raccontato ai tuoi genitori come hanno reagito?
«Non gliel’ho raccontato. Ho consegnato loro il libro, con la dedica. Non sapevano nulla».
Cosa diresti oggi a chi vuole entrare in seminario?
«Di andarci, non ho pregiudizi. Non tutti i preti sono pedofili. Più che altro mi rivolgerei ai capi delle Chiese locali. Mandate nei seminari come educatori i migliori che avete e non la feccia della società e della stessa Chiesa. Anche se…».
Anche se?
«… so che oggi giorno molti si fanno preti per convenienza. In fondo, si tratta di un lavoro sicuro. Nella religione non c’è disoccupazione».
Che fine ha fatto Don C?
«Ora è ufficialmente un prete. Sono venuto a saperlo pochi giorni fa. Vive in una casa del clero, lontano dalle parrocchie, visto che negli ambienti religiosi poi si è sparsa la voce della sua malattia. Ma non mi pare sia stato mai denunciato».
E tu, credi ancora in Dio, nella chiesa e nella castità dei sacerdoti?
«Sì, purtroppo. Sono un debole, come la maggior parte degli uomini. L’idea della Sua presenza, della Sua giustizia e della Sua misericordia, mi conforta. Forse è questa l’unica debolezza dell’uomo che merita rispetto. La castità dei sacerdoti è l’ago della bilancia della loro santità. Solo i santi riescono a sublimare le esigenze “normali” del corpo. Gli altri sono solo umani, troppo umani, esattamente come i laici. Con i pedofili, invece, andiamo oltre il comprensibile, oltre l’accettabile, oltre la libertà. Siamo nell’orrore. Hai mai incrociato lo sguardo di terrore di un bambino?»