Quando la mattina del 31 agosto di vent’anni fa – appena appresa la notizia – decisi di scrivere un romanzo sulla morte di Lady Diana, non ero mosso né da smanie di complottismo irrazionale, né dalla disperazione collettiva, né tantomeno dal desiderio di speculare su un fatto di cronaca.
Il motivo per cui ho scritto un romanzo sul “caso Diana Spencer” quando ancora non si usava tale definizione è che non sopporto che una versione ufficiale sia imposta con la forza dai media a costo di negare ogni evidenza. Non si vedeva un simile accanimento nel produrre una verità prestabilita da quando gli innocenti anarchici Pinelli e Valpreda erano stati accusati della strage di piazza Fontana. Tanto il 31 agosto 1997 quanto nei mesi a venire non si poteva nemmeno ipotizzare che l’incidente costato la vita a Diana Spencer e Dodi al-Fayed fosse stato provocato. Chi lo pensava era considerato un imbecille.
Non ero colpito dalla morte di due persone solo perché erano famose: tanta gente muore nel silenzio generale. Ma ero offeso dalla brutalità della disinformazione mediatica. Quando qualcuno per qualche ragione diventa molto scomodo e, guarda caso, muore poco dopo avere raggiunto il massimo livello di scomodità, a essere imbecille è solo chi esclude a priori che non ci sia un complotto. Per poter affermare l’assenza di dolo bisogna prima compiere un’indagine seria e, possibilmente, basata su fatti, non su menzogne. E di menzogne proposte al pubblico come verità inconfutabili ce ne sono state tante.
Menzogna: Diana e Dodi scappavano terrorizzati dai paparazzi malvagi. Fatto: negli ultimi mesi Diana, che con i fotografi aveva a che fare dal giorno del suo matrimonio quindici anni prima, aveva imparato a manovrare i giornalisti a proprio vantaggio, trasformandosi in un’autentica diva da rotocalco che insidiava la notorietà della regina e umiliava a colpi di glamour l’amante ormai ufficializzata del suo ex-marito, Camilla Parker-Bowles; insomma, forse non era dai fotografi che la coppia fuggiva quella notte dal Ritz di Parigi.
Menzogna: l’autista Henri Paul era un ubriacone, sotto l’effetto di un assortimento di sostanze che gli avrebbe impedito persino di deambulare; ne venne diffusa apposta una foto in cui era grasso e probabilmente alticcio, forse a una festa di chissà quanto tempo prima. Fatto: le riprese delle videocamere di sicurezza del Ritz dimostrano che, oltre che magro, era sobrio e attento come ci si aspettava che fosse un professionista nella sua posizione.
Menzogna: Diana e Dodi si conoscevano solo da poche settimane, la loro storia non era che un amorazzo estivo cominciato ai primi di agosto e servito alla principessa solo per scroccare un passaggio sullo Jonikal, lo yacht della famiglia al-Fayed. Fatto: la modella Cindy Crawford ha dichiarato che Diana le aveva presentato Dodi come proprio fidanzato nel dicembre 1996, versione confermata anche dallo zio di Dodi al-Fayed, il finanziere saudita Adnan Kashoggi; del resto Diana era già stata in vacanza con gli al-Fayed in giugno, criticata dai giornali per avere portato con sé i figli.
Menzogna: la relazione di Diana e Dodi era poco seria e ormai agli sgoccioli, non si parlava affatto di fidanzamento né tantomeno Dodi le aveva comprato un anello. Fatto: come confermato dalle videocamere di sicurezza e dal personale di una nota gioielleria di place Vendôme, Dodi era passato nel pomeriggio del loro ultimo giorno a ritirare l’anello di fidanzamento che aveva ordinato per Diana.
Menzogna: Dodi era un playboy perdigiorno e, come affermò un giornalista britannico in un programma RAI, “un cialtrone”. Fatto: Dodi era anche un produttore cinematografico e uno dei suoi film, Momenti di gloria del 1981, aveva vinto quattro Oscar (tra cui quello come miglior film), un Golden Globe e tre premi Bafta (gli Oscar britannnici); altre pellicole di successo da lui realizzate erano F/X Effetto mortale, F/X 2, Hook-Capitan Uncino e La lettera scarlatta; inoltre Dodi era una persona in vista anche in quanto figlio di Mohammed al-Fayed, imprenditore egiziano proprietario dei grandi magazzini Harrods e altre importanti società britanniche, e nipote del finanziere saudita Adnan Kashoggi, celebre non solo per il suo maestoso yacht Nabila (prestato a Sean Connery per le riprese del film 007 Mai dire mai) ma anche per il suo coinvolgimento nel cosiddetto affare Irangate organizzato dalla CIA negli anni Ottanta.
Si potrebbe andare avanti per ore. Ma, in sostanza, i media erano concordi nell’indicare i capri espiatori – paparazzi e autista – così come nel minimizzare la relazione e diffamare Dodi al-Fayed. Operazione necessaria per allontanare qualsiasi sospetto di complotto.
Eppure già due settimane prima del fattaccio il corrispondente da Londra del quotidiano spagnolo El País, Juan Carlos Gumucio – impegnato in quei giorni in un’inchiesta su un gruppo “deviato” dei servizi segreti e dei corpi speciali britannici, grazie anche a un informatore dall’interno – aveva pubblicato un articolo di costume contenente una frase ambigua: se la storia d’amore tra Diana e Dodi preoccupava molti, c’era in Gran Bretagna chi si aspettava una “catastrofe riparatrice” che avrebbe risolto il problema entro l’estate. Poteva riferirsi a un bisticcio tra i due che causasse l’attesa fine del presunto amorazzo estivo. Oppure intendeva il complotto che chiunque abbia un minimo di competenza in certi ambienti si aspettava in quelle circostanze. Non a caso alla stessa regina Elisabetta è stata attribuita la frase «L’hanno uccisa» appena saputa la notizia.
Sicché, avendo letto due settimane prima l’articolo su El País, il 31 agosto 1997 mi sono chiesto se fosse possibile fabbricare a regola d’arte un falso incidente come quello del Tunnel de l’Alma; entro poche ore, grazie alla consulenza di un esperto, avevo già una possibile soluzione tecnica attendibile. Perciò ho deciso di cominciare subito a scrivere il romanzo, apparso due mesi dopo il fatto in una versione breve con il titolo Morte accidentale di una lady, ripubblicato anni dopo in una versione estesa (solo dal punto di vista narrativo, non da quello investigativo) arricchita di un dossier che delinea gli aspetti di cronaca alla base della mia storia.
Oggi il romanzo – ribattezzato da Alan D. Altieri Ladykill-Morte accidentale di una lady per l’edizione in edicola da Mondadori del 2007, titolo che ho voluto conservare – è in libreria nella sua versione definitiva nella collana Comma 21 di Damster Edizioni. È passato un ventennio e c’è ancora chi sostiene le tesi di allora. Quattro anni fa Scotland Yard ha riaperto il caso sulla base delle nebulose dichiarazioni del fantomatico Soldato N, indagando proprio sulla pista di cui parlo nel mio libro, ma senza arrivare a una conclusione significativa.
Forse si è trattato davvero di un incidente. Tuttavia ci sono ancora troppe lacune nella versione ufficiale per escludere che ci sia stato qualcos’altro. E, in ogni caso, per alimentare i sospetti non c’è niente di peggio che ripetere false affermazioni già smentite da tempo. Il mio romanzo, allora come oggi, ha solo il compito di dimostrare che la stessa storia potrebbe avere una soluzione diversa da quella che vi è stato detto di credere: avere dubbi, purché ben documentati, fa sempre bene.
Andrea Carlo Cappi