Le femmine sono puttane, gli uomini traditori, il destino è cinico e baro e la verità non riuscirà mai a essere più convincente di una diabolica bugia. E perfino i santi, lassù – che tu imprechi o che li supplichi – restano lontani, freddi, e anche un po’ giudicanti.
È l’orizzonte plumbeo di Ortensio Montiglio. Un universo “legato male”, che fa lo slalom tra archetipi, stereotipi e simboli di una cultura in cui è immerso senza passione, senza un particolare senso di appartenenza. Una realtà fatta di dettagli consistenti, di riferimenti pesanti, basata su un assunto, un patto segreto stipulato con il destino, che si logora fino a spezzarsi nel punto più fragile: la ricerca della stabilità.
L’articolo 1 della Costituzione personale di Ortensio Montiglio è: “Abbiamo tutti diritto alla tranquillità”. E quella tranquillità dobbiamo inseguirla scansando, quasi machiavellicamente, le tentazioni di euforia, di felicità, di amore. “Il segreto di una vita senza problemi risiede nell’evitare di stuzzicare la sorte. È una vita senza azzardi, senza drammi, senza sfide da vincere, senza prove di coraggio”. Senza pulsioni, compresa quella sessuale. Tutte le rinunce possibili, per un bene superiore: la tranquillità. Una vita tollerabile, che non pretende di avere anche un senso.
Ma il teorema di Ortensio ha i piedi d’argilla, è un assioma inaccettabile per chiunque, perfino per il Padreterno, che glielo manda a dire attraverso i suoi santi, implacabili e muti. Perché puoi anche fare in modo che la tua vita assomigli a un domino, fatto di tessere tutte uguali, ma non puoi escludere che poi, un giorno, una folata di vento dia la spinta iniziale alla prima tessera, e allora i tuoi propositi vanno tutti a puttane. E poi “la sfortuna” – si sa – “rincorre chi è sperduto”, chi si fa trovare dal destino insicuro, fragile. E Montiglio è uno sprovveduto, perennemente impreparato all’imprevisto.
Non ce n’è una – di queste 133 pagine – in cui tu, lettore, vorresti essere nei panni di questo vigile urbano in pensione, nell’età dei bilanci. E poco importa se alla fine sarà condannato a passare il resto della sua vita tra le sbarre oppure no, perché le sue sbarre sono quelle di una condizione esistenziale senza scampo, né speranza di redenzione. In cui regna l’imperativo categorico di una quotidianità uguale a se stessa, e su quell’altare vengono sacrificate via via tutte le istanze che animano noi esseri umani in quanto tali. Tutte le “disumanità” che nutrono la nostra esistenza e che la rendono degna, che sono la nostra dannazione, condanna, ma anche il senso dell’essere vivi. È questa pretesa di non scendere mai fino alle viscere di se stessi, di non avere mai il coraggio di esplorare il nucleo, la colpa – anzi, il crimine vero – di Ortensio Montiglio. A questo si aggiunge il peccato originale degli uomini in quanto maschi, cioè quello di pensare che “il trucco per vivere sereni sia pensare a compartimenti stagni, in modo che, se entra l’acqua in un compartimento, nell’altro non c’è nemmeno una goccia”. E per proteggersi rinunciano alla visione del tutto, alla sensazione del tanto che si mescola, si sporca, si intreccia in modo improbabile e affascinante. Il maschio – si sa – potendo scegliere preferisce “il cielo diviso e regolato”, come dice Neruda. Ed è un vero peccato, perché Montiglio, di natura, “aveva un’indole sentimentale”, e gli uomini romantici non meritano la condanna alla mediocrità.
Ortensio è soprattutto preda dell’insostenibile pesantezza del suo non essere, che lo tiene ancorato con una pietra al collo sul fondo della sua esistenza, ma nel racconto è schiacciato anche da tre censori implacabili: il magistrato che deve giudicare la sua colpevolezza, i santi muti che si voltano dall’altra parte in un misto tra pena e disprezzo, e lo scrittore. Anche lui se ne sta lì a guardare dall’alto, freddo e distante, pensando forse che il peccato della sua creatura letteraria non sia tanto questo continuo vagheggiare una vita tranquilla, quanto pensare di poter essere felice, o quantomeno sereno, una volta ottenuta. L’autore si dissocia, è come se dicesse: “Tapino, non agognando a niente di trascendente, non aspirando a diventare nulla che dia davvero un senso al tuo viaggio terreno, allora non meriti nulla, se non la pena di marcire in un luogo dove la tua passività diventi alibi definitivo”. “Sono accusato di una colpa che non compare nel codice penale: mi si considera un fallito”, conclude l’autore, per bocca dello stesso Montiglio.
Ma seppure intrisa di una morale così drastica, la penna di Antonio Carnevale non è mai un artiglio, non aggredisce, non graffia, ma scandaglia, come un bisturi chirurgico. Le sue sono decrizioni che non indugiano, ma definiscono i personaggi in modo netto. Li scolpiscono a colori. La natura, i suoi contorni, la forza delle radici che come braccia ti tengono avvinghiato alla terra, le sue ombre e le luci, sono in realtà paesaggi dell’anima. Certi archetipi culturali del sud non sono mai ingombranti o volgari. I non rari momenti grotteschi fanno sorridere amaramente, e lo stile fluido, indifferente alle mode del momento, finisce per assomigliare alla sceneggiatura – ben fatta – di un film. Che per tutto il tempo ti scorre sotto gli occhi. La deposizione fiume davanti a una Corte è lo stratagemma che salva l’esigenza straripante di raccontare se stessi. Il titolo è bellissimo, e dice molto. Del mutismo perenne dei santi. E del silenzio attonito dell’autore. Che è tutto, fuorché un silenzio assenso. È insofferenza e invito a non arrendersi perché, si sa: “Non dura mica una vita, la vita” (“Cu minchia!”).
Info:
I santi muti, di Antonio Carnevale, Zandonai editore, euro 10,00