Riflazione, ecco una parola con un avvenire: nel mondo anglosassone reflation è già pronunciata con compiacimento, come se in bocca avesse un gusto di torta al rabarbaro, e nessuna conversazione d’affari è completa se non viene nominata almeno una volta. Basta googlarla per veder apparire centinaia di migliaia di referenze. E l’espressione più googlata è “reflation trade definition”, il che, come osserva Francesco Guerrera su Politico, vuol dire che chi la digita sta cercando un modo per farci i soldi tradando.
La riflazione è, più o meno, il ritorno dell’inflazione. Dopo anni di deflazione, con un glut mondiale di materie prime ed energia, con tassi di interesse che sembravano temperature della neve, il mondo sta cambiando strada. Donald Trump ha promesso di spingere l’economia, l’Opec è riuscita ad orchestrare un taglio alla produzione e a venderlo anche ai Paesi non membri, e poi di questa micragna non se ne può più, prima o poi il vento dovrà girare e gli operatori sono un po’ più disposti a pensare che girerà presto, il che è una classica profezia che si autorealizza.
Certo, i più stantii di noi (presente! per ora) si ricordano che l’inflazione è stata anche un temibile drago divoratore di vergini e di patrimoni, e che c’è voluto l’equivalente profano di un San Giorgio (un banchiere centrale) per riuscire alla fine a trionfarne. Chi non è un millenniale perché aveva molta fretta di nascere può aver vissuto gli anni Settanta, quando ogni dodici mesi i prezzi in Italia crescevano del 15-20%, il denaro ti ardeva incandescente in tasca e se non ti affrettavi a tirarlo fuori e sbarazzartene ti ci scavava un foro bruciacchiato. Ma come in molte cose, è questione di misura.
Di misura, sì. Una presina di sale nel brasato lo rende più saporito, ma se ne inghiottisci un chilo e mezzo non illuderti di celebrare il prossimo compleanno. L’immigrazione dall’Africa ci ha dato Idris ed El Saarawi ma oggi ci rifila Bello Figo e Anis il tunisino. Un po’ di aumento dei prezzi aiuta il lancio di nuove iniziative, alleggerisce il peso dei debiti sugli imprenditori, olia l’economia. È solo l’eccesso che manda in rovina lavoratori e pensionati e impedisce un vero calcolo economico, deprimendo l’attività. Per convenzione, il livello ottimale di inflazione è oggi determinato nel 2%.
Che cosa succederà adesso? La Federal Reserve sicuramente continuerà ad alzare il tasso di riferimento (allo stesso swingante ritmo con cui si muove un ghiacciaio), mentre le banche centrali di Europa e Giappone terranno duro finché potranno per stimolare l’economia. Passata la boa del 2%, se ne riparlerà.
Cosa succederà sui mercati finanziari? Gli strateghi di Goldman Sachs, che stanno al loro posto come d’autunno sugli alberi le foglie in attesa di prendere un qualche incarico di governo in tutti i Paesi del mondo esclusa Vanuatu, tessono le lodi delle Treasury Inflation-Protected Securities – titoli di Stato indicizzati all’inflazione, just in case. Negli ultimi dieci anni li si è cercati col lanternino, sembravano più estinti del dodo, ma si sa che a volte ritornano. L’autorevole parere di Morgan Stanley è che i mercati migliori per comprare saranno quelli dell’Europa.
E se Trump non mantenesse la promessa di stimolare l ‘economia, se l’offerta di petrolio da schisti aumentasse tanto da coprire qualsiasi aumento della domanda, se gli operatori finanziari avessero freddo ai piedi? Be’, tutto questo è possibile, e produrrebbe effetti deflattivi – ma in fondo siamo nati per soffrire, no?
Paolo Brera