Correva l’anno 1972.
Per chi era studente come me, le lunghe vacanze estive (allora le scuole chiudevano dall’inizio di giugno per riaprire il primo ottobre) furono attraversate da un vero e proprio ciclone.
Un gioco sino a ieri considerato noioso ed astruso, diventò argomento di conversazione quotidiano. Non solo tra i giovani: ne fu interessata la gente di tutte le età.
Il fatto è che, nella lontana capitale islandese , dall’undici luglio sino al tre settembre, andò in scena una rappresentazione simbolica della “guerra fredda”: la finale del campionato del mondo di scacchi tra Robert detto “Bobby” Fischer e Boris Spassky.
Uno statunitense e un russo.
Nel dopoguerra, la corona di re della scacchiera era stata appannaggio esclusivo della scuola sovietica, che aveva sempre piazzato in finale due propri campioni.
“Bobby” Fisher rappresentava, dunque, un’anomalia assoluta.
Lo era, il campione originario dell’Illinois, prima di tutto a livello personale.
Asociale e bizzoso, sin dalla più tenera età si era dedicato ossessivamente agli scacchi, per i quali aveva mostrato un’attitudine prodigiosa. Si dice che avesse appreso da solo le regole del gioco leggendo il libretto di istruzioni di una scacchiera e all’età di 15 anni era già pluricampione americano e grande maestro internazionale.
Con i giocatori sovietici Fisher aveva ingaggiato una lotta senza quartiere sin dalla prima partecipazione alle eliminatorie per il campionato del mondo, nel 1959.
Unico in grado di competere da pari a pari coi numerosi fuoriclasse che giocavano sotto la bandiera con la falce e il martello, questo isolamento, invece di scoraggiarlo, aveva finito per ingigantire il suo già ipertrofico ego.
Nei suoi successi, nonostante fossero diventati ben presto un orgoglio per il suo Paese, la molla patriottica aveva, in realtà, influito marginalmente.
Anche quando, nel 1962, se ne andò sbattendo la porta dal Torneo dei Candidati di Curacao, accusando i giocatori russi di fare un antisportivo gioco di squadra ai suoi danni, e così guadagnandosi la solidarietà dell’intero movimento scacchistico occidentale, non credo si sentisse un paladino della libertà contro il totalitarismo.
Era solo furibondo contro un ostacolo scorretto (e non aveva tutti i torti) che gli impediva di realizzare lo scopo della sua vita: dimostrare, a sé stesso più che agli altri, di essere il più forte scacchista sulla terra.
E Boris Spassky?
Ai tempi veniva identificato con la cupezza e la prepotenza del regime sovietico.
L’opinione pubblica, non solo italiana, ma quella dell’intero occidente, pensava che Fischer fosse il giocatore geniale e fantasioso, grande grazie al proprio irripetibile talento, mentre Spassky il prodotto di una scuola grigia e metodica.
Niente di più improprio.
Come si è poi dovuto riconoscere per obiettività storico-critica, Spassky è stato un giocatore brioso e versatile, a suo agio in tutte le fasi di una partita e nelle più diverse situazioni di gioco, mentre in Fisher gli indubbi, straordinari lampi di genio erano la ciliegina sulla torta di un’impostazione ferrea ed estremamente accurata.
Volendo semplificare, uno schiacciasassi (Fisher) contro un eclettico schermidore (Spassky).
Il campione originario di Leningrado era assai diverso dal suo avversario anche nella vita privata. Nonostante il duro, costante allenamento richiesto dalla pratica scacchistica ai massimi livelli, non si è mai fatto fagocitare dal gioco, dedicandosi con ottimi risultati all’atletica leggera, al tennis e al ping pong e poi, dopo essersi diplomato, all’insegnamento dell’educazione fisica. Nelle relazioni sociali era brillante e spigliato. Pare avesse un debole, ricambiato, per il gentil sesso mentre Fisher era un misogino dichiarato.
Si era arrivati alla sfida di Reykiavik dopo che lo sfidante, Fisher, s’era guadagnato l’accesso alla finale con una cavalcata entusiasmante. Il maniacale genio scacchistico di Chicago aveva travolto tutti gli altri candidati, spesso con veri e propri “cappotto”.
Eppure, il suo score negli scontri diretti con Spassky era desolante. Al massimo era riuscito a strappare pareggi, senza mai vincere una sola partita.
Questo nonostante nei tornei internazionali degli ultimi anni fosse stato l’assoluto dominatore.
Il match iniziò all’insegna delle irritanti bizze di Fisher, che dava la chiara impressione di voler innervosire l’avversario.
All’americano non andava bene niente. Non l’illuminazione della sala dove si svolgevano le partite. Non dover rinunciare alla sua prediletta sedia girevole. Non la presenza ravvicinata del pubblico, troppo rumoroso. Addirittura s’impuntò sul colore delle caselle della scacchiera.
Ogni rimostranza era accompagnata dalla minaccia di ritirarsi dal match, accusando la Federazione Scacchistica Internazionale di essere succube della Federazione Sovietica.
Alla fine Fisher l’ebbe vinta su tutto, forse perché Spassky e l’eccellente squadra dei suoi “secondi” pensavano di aver facilmente ragione del presuntuoso campione americano (che naturalmente si considerava il più forte, ostacolato nella conquista del titolo dai “maneggi” dei sovietici) e del suo entourage un po’ avventuroso: un sacerdote statunitense, ex campione di media caratura, e un grande maestro argentino, Miguel Quinteros, di livello appena accettabile.
La prime due partite dimostrarono che la delegazione sovietica aveva avuto ragione in pieno.
Nella prima Fischer aveva commesso un errore marchiano o, più probabilmente, aveva voluto dare un segnale forte, accettando di giocare per il pareggio in una situazione difficile.
La partita, come allora usava, si era interrotta dopo che i giocatori avevano effettuato un notevole numero di mosse senza esito. Spassky aveva potuto andare a dormire mentre il suo poderoso staff trascorreva la notte a studiare il proseguimento della gara. Fisher, aveva vegliato facendo altrettanto assieme ai suoi raccogliticci secondi.
Alla ripresa, una fatale imprecisione dell’americano aveva spianato a Spassky la strada verso la vittoria.
Un’altra.
Fisher aveva dato in escandescenze, sostenendo di aver perso a causa del ronzio troppo forte delle telecamere che riprendevano la partita. Finché non fossero state spente, non avrebbe ripreso a giocare.
Una richiesta talmente provocatoria che non venne accolta dagli organizzatori, così il campione americano disertò la seconda partita, perdendola a tavolino.
A questo punto tutti pensavano che Fisher avrebbe abbandonato il match.
Non fu così perché Spassky, per sportività restio a vincere senza giocare, o forse troppo sicuro di sé, cercò di venire incontro alle strampalate esigenze del suo avversario accettando che la terza partita si svolgesse in una saletta preclusa al pubblico.
Fisher vinse per la prima volta contro Spassky con un gioco superbo, e da quel momento la sua performance fu irresistibile. Perse una sola altra partita vincendone sei, sino a laurearsi, con pieno merito, campione mondiale.
Giubilo nel blocco occidentale-capitalistico, malcelato dispetto in quello orientale-comunista.
Per un certo tempo, almeno alla fine di quell’anno, il gioco degli scacchi richiamò un numero considerevole di nuovi praticanti. Molti di loro, tra cui mi annovero, hanno coltivato la passione sino ad oggi: sono gli scacchisti figli del match di Reykiavik.
E Fisher e Spassky?, vi chiederete.
Curiosamente, il campionato del 1972 fu il canto del cigno per entrambi.
Spassky è rimasto un ottimo giocatore, senza mai più tornare ai vertici.
La sorte di Fischer è stata ancora più radicale: sembra impossibile che un talento ancora nel fiore dell’età ( nel 1972 aveva appena 29 anni!) come il campione statunitense dopo il trionfo islandese non abbia più giocato una sola partita ufficiale di scacchi, ma è proprio così.
È ricomparso sulla scena solo nel 1992 per concedere a Spassky la rivincita, un match di esibizione non riconosciuto dalla Federazione Internazionale e fortemente osteggiato dagli U.S.A in quanto svoltosi nell’allora discussa Jugoslavia.
È morto nel 2008, dopo molte traversie, espulso dagli Stati Uniti per problemi con la giustizia e accolto come cittadino onorario nell’unica nazione che non ha dimenticato la sua grandezza: l’Islanda.
Nel racconto “La svolta”, pubblicato nel 2013 sul Sito “Soloscacchi” ho provato a fornire una spiegazione sull’andamento del match di Reykiavik e sulla parabola del suo stravagante eroe.
Rino Casazza
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