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Walter Giravegna e il caso del paradiso satanico. Un racconto di Paolo Brera

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Niente succede a caso.

Ma almeno succede! Qui invece non succede niente. Il tempo, qui, è marcato solo dalle mie fantasticherie. Dai ricordi. Dai miei sogni sconnessi.

Rivedo il medico che mi ha mappato il corpo prima che entrassi nella mia cella.

«Io faccio il mio lavoro, ma nessuno merita il paradiso.» Una pausa. «Inutile farle gli auguri. Qualunque cosa lei abbia fatto, non si merita il paradiso.»

Non mi ero mai posto il problema se mi fossi meritato il paradiso. Un delitto è un delitto e ciò che ho commesso è un delitto. Avevo qualche attenuante: le provocazioni, un rapporto in cui il suo raffinato sadismo era all’ordine del giorno.

Per questo ho avuto quel momento di rabbia fatale.

E adesso sono qui, in una stanza imbottita dove perfino se pesto contro le pareti come un pazzo non si sente praticamente nessun suono, dove il buio è quasi completo e l’unica luce è il pulsante del paradiso, di solito di colore azzurro pallido, e una volta ogni milione di anni di un rosso esangue. Quando si risveglia, il pulsante emette anche un lievissimo ronzio.

 

Al processo, tutto ruotava intorno al coltello che ho usato per colpirla.

Il sostituto procuratore ha detto che me l’ero procurato solo pochi giorni prima: una confezione nuova. Ha detto che c’era stata premeditazione, perché un normale coltello non sarebbe servito all’esecuzione del mio disegno criminoso. E gli altri coltelli che in cucina c’erano già erano normalissimi e ben poco affilati. Era necessario uno strumento nuovo. Ma chi compra uno strumento, pensa all’uso che ne farà. Dunque: premeditazione.

Il mio avvocato aveva fatto notare che anche i coltelli da cucina di tanto in tanto vanno cambiati, e se veramente avessi progettato di servirmi di un coltello per compiere un delitto, sarebbe bastato affilare quelli di prima. «Quest’uomo non è uno stupido, ma una persona piuttosto intelligente. Se avesse concepito a freddo un disegno omicida, avrebbe fatto in modo di non farsi prendere, avrebbe confuso le acque. Nulla di tutto questo ha fatto. Che egli sia l’autore del gesto terribile, è chiaro per tutti e non può essere negato. Ma che sia un freddo premeditatore – no, questo no. Non c’è stato niente di freddo nelle sue azioni. Ha perso la testa. Ha ucciso. Ma d’impulso, per una grave situazione di sofferenza.»

Le sento ancora, quelle parole.

E non sento praticamente nient’altro. Si chiama “privazione sensoriale”, e non è paradiso, è inferno.

 

Una volta al giorno mi portano da mangiare. Ma prima riempiono l’aria della cella di qualcosa che mi fa dormire, un sonno pesante, senza sogni, perché anche i sogni sono movimento, colore, suono.

Il cibo è scipito, non ha praticamente gusto. Sanno tutto del mio corpo, il medico l’ha mappato alla perfezione, e in quello che mi danno da mangiare mettono tutte le sostanze necessarie per farlo vivere, il mio corpo… e niente che gratifichi i miei sensi o la mia anima.

Man mano che passavano i secoli – non ho più la percezione del tempo, non so se siamo ancora nel 2040 oppure già nel 2041 o magari nel 2061, anche se questo è improbabile, dato che nessuno resiste così a lungo al paradiso.

Ecco, ho pensato al paradiso e il pulsante si è acceso di rosso, invitante. O forse fra una cosa e l’altra c’è stata una distanza di ore ed ore, chi può dirlo.

Io so che cos’è quel pulsante.

È la mia condanna.

E non potrò mai sfuggirle, perché prima o poi il paradiso prende tutti.

 

Un tempo avevo meno allucinazioni. Non so quanto tempo sia passato, ma mi sembra di avere rivissuto tutto quello che mi ha fatto soffrire nel mio rapporto con lei. Mia moglie, la signora Giravegna. Tutte le frasi pungenti, i rifiuti, gli atteggiamenti di ostentata indifferenza. Quasi non riesco a credere che in passato abbiamo fatto l’amore. Lei, la mia torturatrice, ed io, il suo giocattolo umano.

L’ho uccisa. È vero. Ma nessuno merita il paradiso.

 

Cento volte, o forse mille – o forse solo dieci o dodici! – ho provato la tentazione di schiacciare il pulsante.

Ma non lo faccio, non l’ho mai fatto, perché so che questo sarebbe l’inizio della mia fine.

Una condanna a morte, ma umanitaria. Ce l’avevano insegnato a scuola, alle lezioni di educazione civica. Non c’è violenza né dolore, ma in pochi giorni il condannato muore, che è ciò che si vuole da lui.

Il pulsante scarica nella cella onde simili a quelle cerebrali, quelle che escono dal centro del piacere nel cervello umano.

Solo che quelle del paradiso sono continue e molto più intense.

Premi il pulsante e provi tutti insieme i più sfrenati orgasmi, i sapori più deliziosi, le musiche più carezzevoli. Nessuna sensazione di dolore o di malessere riesce a penetrare la corazza di questa comunione con tutto ciò che di piacevole ci sia nell’Universo.

Se non c’è nessuno a fermarti, non riesci a staccarti dal pulsante. Perché sei in paradiso… finché non muori di fame e di sete, dato che non hai badato a nessuno degli allarmi del tuo corpo.

 

Al di là di quel pulsante c’è il paradiso, e la morte. Al di qui, la cella della privazione sensoriale, che non si può definire vita.

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«Questa corte, sentiti i testimoni e le arringhe dell’accusa e della difesa riconosce l’imputato Walter Giravegna colpevole di omicidio di primo grado e lo condanna a morte. La sentenza sarà eseguita mediante paradiso. Che Dio abbia pietà della sua anima!»

Che cosa farà Dio non lo so, ma so che il paradiso è a portata di mano qui in terra, e io, tra poco, schiaccerò quel pulsante.

Paolo Brera

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Paolo Brera

Paolo Brera è nato nel secolo scorso, non nella seconda metà che sono buoni anche i ragazzini, ma nell’accidentata prima metà, quella con le guerre e Charlie Chaplin. Poi si è in qualche modo trascinato fino al terzo millennio. Lo sforzo non gli è stato fatale, ma quasi, e comunque potete sempre aspettare seduti sulla riva del fiume. Nella sua vita ha fatto molti mestieri, che a leggerne l’elenco ci si raccapezza poco perfino lui: assistente universitario di quattro discipline diverse (storia economica, diritto privato comparato, eocnomia politica e marketing), vice export manager di un’importante società petrolifera, consulente aziendale, giornalista, editore, affittacamere e scrittore. Ha pubblicato una settantina di articoli scientifici o culturali, tradotti in sei lingue europee, due saggi (Denaro ed Emergenza Fame, quest’ultimo pubblicato insieme a Famiglia Cristiana), due romanzi e una trentina di racconti di fantascienza, sei romanzi e una decina di racconti gialli, più un fritto misto di altri racconti difficili da definire. Negli ultimi anni si è scoperto la voglia di tradurre grandi autori, per il piacere di fare da tramite fra loro e il pubblico italiano. Questo ha voluto dire mettere le mani in molte lingue (tutte indoeuropee, peraltro). Il conto finora è arrivato a quindici. Non è che le parli tutte, ma oggi c’è il Web che per chi lo sa usare è anche un colossale dizionario pratico. L’essenziale è rendere attuali questi scrittori e i loro racconti, sfuggire all’aura di erudizione letteraria che infesta l’accademia italiana, e produrre qualcosa che sia divertente da leggere. Algama sta ripubblicando le sue opere in ebook, a partire dalla serie dei romanzi con protagonista il colonnello De Valera.

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