Non invidio Paolo Brera.
Dev’essere stata un’impresa intraprendere il mestiere di scrivere da figlio dell’immenso Gianni Brera (anzi, come diceva lui, “Gioannbrerafucarlo”), uno dei più grandi scrittori del novecento.
Non sembri iperbolico il riconoscimento: il fatto di aver in prevalenza scritto su un argomento “plebeo” come il calcio, non diminuisce la statura di un giornalista, saggista e narratore che si definiva “umile scriba” ma che, per il suo inimitabile stile, ricchissimo impasto linguistico di rara efficacia, va incluso tra i grandi della letteratura tout court.
Per inciso, devo confessare di aver sempre straammirato la prosa scintillante di Brera padre, mai banale, fertile di memorabili invenzioni linguistiche, ma da ragazzo storcevo il naso di fronte alle sue teorie critiche sul calcio, ritenendolo troppo manichee.
Col tempo, ho dovuto riconoscere la profondità con cui Brera interpreta l’essenza del gioco più amato al mondo, una battaglia in cui non conta il bello ma prevalere sull’avversario. E che, in quanto universalmente diffuso, tra eccelsi campioni e brocchi, giustifica tutti gli accorgimenti tattici, utili a vincere, consentiti dalla sua natura.
Non sembri oziosa questa prenessa: serve a evidenziare che Paolo Brema, nel suo ultino romanzo, Il veleno degli altri, si dimostra degno di suo padre.
Gianni Brera non scrisse mai gialli, che io sappia almeno. Forse, c’era già abbastanza thrilling nelle partite di calcio, un “mistero agonistico”, come acutamente lo definiva.
Paolo Brera, che ha già al suo attivo una rimarchevole spy-story ottocentesca, Il visconte, scritta a quattro mani con Andrea Carlo Cappi, purtroppo oggi introvabile, ne Il veleno degli altri si cimenta in un triplice salto mortale, riuscito.
Innanzitutto, sceglie un registro linguistico finto medio basso, per adattarsi al linguaggio, spiccio e ruspante , del dinamico e un po’ cinico ambiente milanese commerciale e delle pubbliche relazioni, in cui si ambienta la storia. Un mondo il cui parlare risente di echi sia del dialetto bauscia che del gergo manageriale inglesizzante.
Il padre Gianni, dal Cielo, applaudirà di sicuro.
Poi, il degno “figlio d’arte”, adotta lo schema poliziesco cosiddetto inverso, quello immortalato dalla serie del tenente Colombo, in cui l’identità dell’assassino è nota fin dall’inizio al lettore, e la suspance si gioca tutta sul dubbio ” riuscirà, e come, l’investigatore, a smascherare il colpevole?” Almeno così appare, perché in un giallo che si rispetti, come in una partita di calcio, il risultato può esser sempre ribaltato all’ultimo minuto: la pagina è rotonda come la palla.
Non basta. Nel veleno degli altri, si applica pure quello che potremmo chiamare la formula “Rashomon”, dal celebre film di Kurosawa: gli stessi eventi vengono narrati dal punto di vista dei diversi personaggi che ne sono stati protagonisti, con relative rivelatrici differenze.
Insomma, ci sono tutti gli ingredienti per una lettura di piacevole originalità.
La cui ciliegina sulla torta è l’investigatore, un interessantissimo Colonnello dei carabinieri, di cui ci si augurano nuove avventure, molto umano (e fin qui niente di nuovo) ma acuto e intelligente in controtendenza rispetto alla nomea barzellettistica dei militi dell’ Arma “nei secoli fedele”.
Rino Casazza
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