Giorgio William Vizzardelli, di cui io e il mio “socio letterario” Daniele Cambiaso abbiamo riproposto la vicenda nel thriller “La logica del Burattinaio” non è stato l’unico caso di serial killer dell’epoca fascista.
Ce ne sono almeno altri due.
Il primo, il più conosciuto per il film del 1972 di Damiano Damiani interpretato da Nino Manfredi, riguarda Gino Girolimoni.
Costui fu accusato di una serie di rapimenti e uccisioni di bambine avvenuti nella capitale tra il 1924 e il 1928.
Oggi non lo si ricorda più come assassino seriale, ma come vittima della morbosa emotività e del distorto interesse mediatico che suscitano i casi di cronaca nera.
Girolimoni era innocente, tanto che fu prosciolto senza essere nemmeno processato.
Tuttavia non riuscì, e non riesce ancora, a scrollarsi di dosso il marchio di seviziatore d’inermi creature: il suo nome, infatti, è comunemente quanto ingiustamente divenuto, nell’uso popolare, sinonimo di “pedofilo”.
L’altro caso, meno celebre ma altrettanto clamoroso, è quello di Cesare Serviatti.
La vicenda inizia, in modo terribilmente sensazionale, il 16 novembre del 1932.
Alla Stazione di Napoli Centrale vengono ritrovate su un treno proveniente da Torino Porta Nuova due valigie abbandonate con un contenuto raccapricciante: alcuni pezzi di uno sconosciuto cadavere di donna. Il giorno dopo, alla Stazione di Roma Termini viene ritrovata su un treno partito da La Spezia un’altra valigia con le parti restanti del corpo.
Durante il ventennio, la criminalità comune veniva perseguita con una severità persino maggiore di quella, tristemente famosa, riservata alla dissidenza politica.
Il fascismo teneva ad accreditarsi come portatore dell’ ordine sociale, e perciò, quando si verificavano episodi di cronaca nera di vasta risonanza, la polizia si mobilitava per assicurare con la massima rapidità i colpevoli alla giustizia.
Questa urgenza di colpire i criminali poteva pagare dal punto di vista propagandistico, ma sotto quello investigativo recava con sé il rischio della sommarietà.
Lo dimostrano il caso del “mostro di Sarzana”, con l’incriminazione sbagliata dell’insegnante Vincenzo Montepagani, che rischiò di finire sulla forca innocente, e quello, succitato, del “mostro di Roma”.
Il fatto è che quando, in qualsiasi epoca, si lavora per “sbattere il mostro in prima pagina” in modo esemplare, l’errore è dietro l’angolo.
Ciò non è accaduto per il “caso Serviatti”, grazie alle capacità di due ottimi “sbrirri” della Questura romana: il Commissario Musco e il Vice Commissario De Simone.
Del primo si dice che fosse entrato in polizia a causa del suo antifascismo: il concorso per Commissario, infatti, era l’unico che non richiedeva ai partecipanti l’iscrizione al Partito ( anche se, poi, una legge attribuì d’ufficio ai funzionari della Polizia la tessera del Fascio…)
I due si erano già occupati, senza venirne a capo, della morte di una cameriera romana, Bice Margarucci, restituita decapitata e mutilata dal mare a Santa Marinella, sul Tirreno, nel novembre 1930.
Gli altri pezzi del cadavere furono ritrovati allo stesso modo. Erano giunti lì trascinati dalla corrente del Tevere. L’ assassino aveva fatto a pezzi il corpo della Margarucci per potersene più agevolmente disfare gettandoli nel fiume.
Il corpo ritrovato sui treni non era riconoscibile, ma Musco e De Simone sospettarono un collegamento con l’altro omicidio, e cercarono di arrivare alla sua identificazione partendo dalle risultanze della precedente indagine.
Bice Margarucci era una donna sola, senza parenti e con pochi conoscenti. Possedeva un discreto gruzzolo, sparito, e si sapeva che poco prima della morte aveva conosciuto un uomo misterioso attraverso un’inserzione matrimoniale
Quando da alcuni dettagli -l’ora di comparsa delle valigie sul treno e il ritrovamento di un coltello insanguinato nei pressi della Stazione di La Spezia – si riesce a restringere il campo di ricerca alla città ligure, gli investigatori incominciano a cercare qualcuno che corrisponda al profilo di una cameriera con pochi legami famigliari e sociali, in cerca di marito, con buoni risparmi, che abbia trovato l’anima gemella in un annuncio per cuori solitari.
E colgono nel segno: si presenta Olga Melgradi, una cameriera di origini umbre che lavora a Roma. Sostiene di non aver più notizie di un’amica, Paola Gorietti, quarant’anni, orfana e nubile, a servizio presso una ricca famiglia romana sino a qualche tempo prima.
La donna, sostiene la Melgradi, ha conosciuto un uomo affascinante rispondendo a un avviso sulla stampa. Paola ha raccontato a Olga, sua unica confidente, di aver ricevuto una proposta di matrimonio da quel distinto signore, maresciallo in pensione, che la voleva al suo fianco nel gestire un piccolo albergo a La Spezia.
Paola ha accettato, e le risulta partita per la nuova vita, ma da allora non ne ha più saputo nulla.
E’ in grado di fare il nome del maresciallo così innamorato di Paola: Cesare Serviatti.
Le immediate ricerche portano a scoprire che a quel nome corrisponde un cinquantaduenne originario di Subiaco, sposato e residente a Roma con la moglie.
E’ effettivamente in pensione, e in passato ha fatto l’albergatore a La Spezia.
Non ha un aspetto prestante, anzi, ma è una persona socievole e affabile. Ha svolto molti mestieri, tra cui il macellaio e l’infermiere. Unico precedente torbido, la cacciata da una clinica romana sotto l’accusa di maltrattamenti ai pazienti.
Ce n’è abbastanza per piombare a casa Serviatti, in via Principe Amedeo, per interrogarlo.
Serviatti dappricipio resiste ma poi, messo alle strette, si arrende e confessa.
E’ lui l’assassino sia della Margarucci che della Gorietti.
Per individuare le vittime, ha elaborato un’accurata strategia. Il primo passo consiste nel pubblicare sui giornali il seguente annuncio:”Pensionato, 450 mensile, conoscerebbe Signorina con mezzi. Preferibilmente conoscenza scopo matrimonio”.
Le zitelle inappagate non mancano, e molte abboccano.
Qui avviene la seconda scrematura: Serviatti si concentra sulle donne abbienti che, vivendo da sole, non abbiano amici o famigliari interessati a ricercarle una volta scomparse.
Sembra un approccio razionale e utilitaristico, per quanto cinico, ma non c’è solo questo.
Serviatti comincia a raccontare altri dettagli che fanno inorridire gli inquirenti.
Uccide le sue prede strangolandole durante un amplesso. Continua a possederle anche da morte. Non ne disseziona il cadavere per facilitare il suo “smaltimento” ma per soddisfare incontrollabili pulsioni sadiche.
Ammette l’omicidio di un’altra donna scomparsa, l’ex cantante lirica Pasqua Bartolini Tiraboschi, adescata, derubata e soppressa con modalità analoghe, e sostiene che l’elenco delle sue vittime comprende altre cinque sventurate, di cui non fa però mai il nome.
Il processo, celebratosi a tempo di record nell’estate del 1933, non riesce a venire chiaramente a capo dell’ambigua natura dell’assassino.
Chi è Serviatti?
Un ladro senza scrupoli, che non esita di fronte all’omicidio pur di arricchirsi, e poi cerca di farla franca sbarazzandosi del cadavere delle vittime?
O piuttosto un maniaco necrofilo e necrosadico, come a un certo punto, forse su suggerimento degli avvocati, che sperano di fargli ottenere l’infermità mentale per salvarlo dalla pena di morte, manifesta in aula con dichiarazioni deliranti, quale quella che a commettere le sue violenze lo spingerebbe una forza misteriosa?
Nella vicenda gioca un ruolo importante la moglie, che con ogni evidenza l’ha coperto, ma riesce a sfuggire all’accusa di complicità convicendo i giudici di averlo aiutato nelle truffe, ma di essere all’oscuro degli omicidi.
Non dimentichiamo che all’epoca era in auge la teoria lombrosiana sulla tendenza naturale a delinquere, desumibile dai tratti somatici degli individui, e non si era propensi a riconoscere l’attenuante dello squilibrio mentale.
Successive analisi hanno evidenziato che sulla personalità perversa di Serviatti ha con ogni probabilità influito la sua infanzia travagliata per la perdita precoce dei genitori, con gravi difficoltà economiche e scompensi educativi e caratteriali.
Ma oramai il suo destino è scritto. Un truffatore ed efferato boia di donne ingenue e romantiche, versione romanesca di Landru, non può scamparla nell’Italia di Mussolini.
Riconosciutagli la capacità d’intendere e di volere, rimedia l’ergastolo per i primi due omicidi, e la pena di morte per il terzo.
Interpretando l’ostilità che lo circonda, da parte del regime e dell’opinione pubblica, il Re rimane sordo alla sua domanda di grazia.
Il 13 ottobre 1933 muore con l’ignominia dei traditori, fucilato alla schiena dal plotone di esecuzione.
Il luogo dove la sentenza viene eseguita assume un valore profetico: Sarzana, la cittadina in provincia di La Spezia teatro, appena quattro anni dopo, delle gesta di Giorgio William Vizzardelli, il serial killer ragazzino.
Rino Casazza
LA LOGICA DEL BURATTINAIO E TUTTI I LIBRI DI RINO CASAZZA:
La logica del Burattinaio, nella mente del serial killer
Bergamo sottosopra. Un’avventura di Auguste Dupin e Giuseppe Giacosa
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