Questo film, vincitore del Leone Nero al penultimo Courmayeur Noir Festival, ha due indiscussi motivi d’interesse.
Il primo sono i sommergibili, set cinematografici “naturali” per eccellenza. I film ambientati nei claustrofobici spazi dei sottomarini non si contano ormai più, ma continuano a funzionare. Credo che il motivo stia nel senso di forza e debolezza insieme che infondono queste particolari imbarcazioni, invisibili, perfette macchine per l’immersione e, allo stesso tempo, fragilissime, potenziali bare d’acciaio per il loro equipaggio.
Questa doppia faccia dei sommergibili ha segnato la storia della mia famiglia. Mio padre nella seconda guerra mondiale si occupava della loro manutenzione nel porto di Taranto, e me ne ha sempre magnificato la bellezza tecnologica. D’altro canto suo cugino, marinaio, è rimasto dolorosamente disperso nell’affondamento di uno di quei gioielli.
V’è tuttavia da notare che il cinema hollywoodiano ha saputo ambientare su un sommergibile una delle sue più spassose commedie brillanti, il sempreverde “Operazione sottoveste” col suo sottomarino verniciato di rosa a equipaggio misto.
Non c’è dubbio, però, che questi natanti che si muovono nei fondali marini sono un palcoscenico ideale per il cinema di tensione, soprattutto perché, come immancabilmente accade nella pellicola di Macdonald, la convivenza forzata nell’angusto habitat di un sommergibile scatena dinamiche interpersonali estreme.
L’altro motivo d’interesse del film è il Mar Nero, il più sfuggente di tutti i mari, visto che se non fosse per lo stretto del Bosforo che lo collega al Mediterraneo sarebbe un immenso lago. A voler essere più precisi, “The Black Sea” è addirittura un quasi lago comunicante con altri due quasi laghi: il Mare di Azov e il Mar di Marmara. Ultimamente, il Mar Nero è assurto a triste notorietà per il sanguinoso conflitto russo/ucraino per il possesso della penisola di Crimea.
Il titolo di “sfuggente” se lo merita non solo per le sue caratteristiche geografiche uniche, ma anche per il fatto che fin dall’antichità è stato indifferentemente definito come ospitale e inospitale, e ancora oggi, con quel nome lugubre (ma pare che l’origine etimologica non alluda a niente di negativo), e le sue caratteristiche fisico-ambientali assai diverse da quelle di un mare aperto, non si capisce se sia una ricchezza o una sfortuna.
Il thriller di Macdonald mantiene questa ambiguità.
I protagonisti della storia, infatti, partecipano alla missione “pirata” sottomarina per il recupero del tesoro nascosto dentro il relitto di un U-boot. L’ operazione è resa possibile dalla scarsità d’ossigeno nei fondali del Mar Nero, che mantiene in buono stato quanto vi affonda anche a grande distanza di tempo.
The Black Sea è tuttavia pieno d’insidie per la navigazione di un sommergibile, specie se deve muoversi all’insaputa della Marina russa e ucraina che lo presidiano, senza nemmeno poter lanciare, all’occorrenza, S.O.S, pena la prigione per tutto l’equipaggio.
Sui colpi di scena e le peripezie che si susseguono, e sul finale coerentemente in bilico tra il dramma e l’happy end, taccio, lasciando allo spettatore il gusto di goderseli, pur con l’avvertenza che neppure questa volta il cinema “sommergibilistico” delude.
Ottima la prova di Jude Law, Capitano Nemo dai molti lati oscuri, che per l’ennesima volta dimostra di essere, tra i “belli” del grande schermo, quello col maggior spessore interpretativo.
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