Il cinema di guerra è portatore di una contraddizione. Se la guerra costituisce la forma più istituzionale e organizzata, dunque più esecrabile, di violenza, com’è possibile trasformarla in spettacolo, o addirittura in arte? Eppure il successo dei film che raccontano, spesso in maniera brutale, guerre storiche e/o inventate è indiscutibile. Un esempio su tutti: “ Salvate il soldato Ryan”, di Spielberg , insignito dell’Oscar e accolto con favore dagli spettatori di tutto il mondo. Val la pena di ricordare che questa pellicola inizia rappresentando lo sbarco in Normandia per quell’orrenda carneficina che fu, con una crudezza d’immagini degna di certi scatti del re dei fotografi di prima linea : Robert Capa.
A tal proposito giova ricordare che una delle prime obiezioni alla neonata tecnica espressiva dell’”immagine in movimento”, fu che, proponendo con realismo e senza filtro il lato oscuro della vita, ovvero il delitto e l’immoralità, potesse fungere da cattiva maestra.
Oggi può sembrare una preoccupazione rozza, ma basta leggere le cronache del primo novecento sul c.d.” avellonismo”, movimento favorevole ad una severa censura cinematografica, per constatare quanto fosse diffusa.
Naturalmente, ben presto ci si rese conto che non è l’oggetto di una rappresentazione cinematografica ad essere censurabile, ma l’impronta che ne da’ l’autore, perché il cinema non riproduce la realtà ma la interpreta.
È così che il cinema di guerra ha ottenuto un vasto apprezzamento: l’uso sistematico dell’omicidio che le guerre, nella loro essenza, rappresentano, è divenuto lo sfondo per mettere in luce i valori ( o disvalori) umani dei combattenti, come il coraggio (o la viltà…), l’eroismo (o la gratuita crudeltà…) ma, soprattutto, per sottolineare l’aspetto più controverso, ovvero il suo manicheismo: gli uomini si combattono e uccidono per far prevalere il bene sul male.
Il film Fury di David Ayer, un colossal del genere con notevolissimi effetti speciali e un ottimo cast, non solo per la presenza di un divissimo come Brad Pitt, sogno proibito del pubblico femminile ma anche attore duttile ed espressivo, ci è piaciuto perché si propone di emozionare pagando uno scotto minimo, se non nullo, alla filosofia settaria del cinema bellico.
Infatti l’equipaggio del carrarmato che da’ il nome al film è fatto di militari esperti e spietati (a parte l’ultima giovane recluta, la cui esperienza in battaglia fungerà da formazione personale) che però vivono la loro condizione come destino (significativo il ricorso frequente a citazioni bibliche) piuttosto che come dovere patriottico.
Non sono eroi, e per questo risultano persino un po’antipatici, ma persone obbligate a uccidere senza tentennamenti per non essere uccisi.
A un certo punto il duro e insensibile Don “Wardaddy” Collier (Pitt) riesce addirittura a pronunciare una frase memorabile, vero manifesto del film, che da lui non ti aspetteresti:”Gli ideali sono pacifici. È la storia che è violenta”
Il convincente taglio antiretorico della storia ci induce a promuoverla a pieni voti nonostante il parziale “happy hand” (ma pare che il cinema hollywoodiano debba inchinarsi a questo totem) un po’ fuori posto e, soprattutto, alla esagerata concessione finale all’immaginario femminile, laddove Pitt mantiene integre le sue fattezze anche se dentro la carlinga del carro dove si trova imprigionato scoppiano ben due bombe a mano.
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