Era l’estate del 2007 e stava per entrare il vigore la separazione delle carriere voluta dall’ex ministro della Giustizia Roberto Castelli. Pochi giorni prima che diventasse legge, passò però la riforma del Guardasigilli che ne aveva preso il posto, Clemente Mastella. Di due binari diversi per giudici e pm non se ne fece più nulla. L’anno si è chiuso con l’assoluzione di Matteo Salvini, che ha giurato di portarla a termine. Dubitiamo che ci riuscirà. Però la fotografia che la Corte di Strasburgo restituisce della nostra giustizia è agghiacciante: non siamo solamente il Paese al vertice delle condanne per lentezza processuale. Ma siamo in cima alla classifica dei Paesi occidentali per le violazioni dei diritti della difesa, ovvero la seconda parte dell’articolo 6 del Trattato per i diritti dell’Uomo. E lo siamo a tal punto che nel 2011 la Consulta emanò la sentenza 113 che prevede la ricelebrazione del processo in caso di condanna per violazione dei diritti della difesa da parte di Strasburgo. In questi tristi primati europei eccelliamo anche per la mancata protezione della proprietà privata e pure della vita privata e famigliare.
La separazione delle carriere di giudici e pm la voleva non a caso Giovanni Falcone, attaccato e ostracizzato in vita da un’enorme quantità di colleghi che però, dopo la sua morte, fecero la corsa a dichiararsi suoi amici. Disse Falcone a Mario Pirani il 3 ottobre 1991 su Repubblica: «Il giudice si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell’Esecutivo».
Il 2024 ci ha regalato l’ennesimo, mostruoso, errore giudiziario per il quale non pagherà nessuno: quello di Beniamino Zuncheddu, 33 anni di cella da innocente. La responsabilità civile dei magistrati resta una chimera, impossibile da portare a termine con la legge attuale e anzi potenzialmente dannosa per la vittima. Ma almeno due carriere diverse e due Csm diversi sarebbero utili a chiarire che le parti in causa vanno nettamente divise: da una parte chi sostiene l’accusa, dall’altra chi giudica. Continua ad essere incomprensibile il motivo per il quale l’unica parte realmente terza, la cui carriera è indipendente dalle altre, debba essere soltanto quella degli avvocati. Così come non è possibile accettare che le carriere di giudici e pm siano decise dalle correnti interne alle toghe, almeno finchè il percorso professionale resta lo stesso.
Per come la vediamo, poi, le carriere non dovrebbero essere due, ma tre. In tutti i governi sono infatti previsti nei gabinetti ruoli di magistrati, che, ad ogni cambio di esecutivo, terminano l’aspettativa per rientrare nei ranghi. È così che tuttavia l’ordine dei poteri non resta mai realmente diviso tra esecutivo e giudiziario: perchè succede che poi (o prima) a quegli stessi magistrati chiamati a Palazzo capita di dover decidere di processi ai danni di politici con i quali, magari, avevano o avranno condiviso gli stessi corridoi. Si può parlare così di terzietà? L’ideale, ma è l’utopia del cittadino, sarebbe che i magistrati distaccati ai ministeri costituissero una terza categoria a sè.
Così come, a parte, dovrebbe esserci un tribunale che gestisce le denunce contro i magistrati e quelle dei magistrati contro altre persone, privati cittadini o politici che siano: questo per non continuare a dare l’impressione che siano in qualche maniera favoriti dal fatto che a giudicarli siano i loro stessi colleghi. D’altra parte, uno studio del sociologo Morris Ghezzi, documentava già diversi anni fa come i magistrati fossero la categoria professionale che otteneva più accoglimenti delle denunce per diffamazione e quella pure maggiormente risarcita. Verrebbe dunque da dire che sia perfino estremamente difficile, e certamente potenzialmente molto costoso, esercitare una critica nei confronti di chi indaga e giudica, che è poi controllato e sanzionato (quasi mai) sempre da colleghi che magari conosce e frequenta. E tante volte chi esercita questa critica, assumendosi enormi rischi, lo fa nella speranza di trovare poi un giudice realmente terzo. Ma in uno Stato di diritto non si dovrebbe sperare in un giudice terzo. Andrebbe dato per scontato.