Ieri sera è andato in onda su Rai3 il documentario diretto da Riccardo Milani dal titolo Io, noi e Gaber sulla vita del grande artista prematuramente scomparso nel 2003.
Tra un’infinità di filmati di repertorio che mettevano abilmente in risalto il cambio di registro messo in atto da Gaber nell’arco della sua carriera artistica, dalle canzoni più “popolari” all’impegno del “teatro canzone”, trovavano spazio le opinioni di Mario Capanna, Fazio, Pierluigi Bersani, Jovanotti, Fossati, Gino & Michele, Luporini e diversi altri. Naturalmente la voce narrante era quella della figlia Dalia. Ombretta Colli, anziana e ancora innamorata non solo della vita, sedeva nel suo giardino sussurrando le parole del marito con un sorriso scolpito sul viso.
Il documentario è preciso, esauriente seppure talvolta sfuggente su alcuni capitoli della vita del cantautore, evocativo ed ineccepibile nel dipingere la rabbia di Gaber che sembra crescere di anno in anno fino a sfociare nella rassegnata “La razza in estinzione”.
Contro tutto e tutti, Gaber. Contro il miraggio della democrazia, contro i collettivi di moda, contro la falsità dell’epoca. Un anarchico vero, come sottintende il sodale Luporini, un comunista della prima ora.
Eppure, oggi che le opinioni si tacciono dal vivo ma proliferano spietate sui social, non sono mancate le solite futili polemiche da bar.
I veri discepoli di Gaber (quelli che si considerano unici portatori sani di sapienza e in realtà si beano della loro presunzione che cela la più bieca ignoranza), hanno tuonato.
Non tutti, ma tanti.
Cosa c’entrava Jovanotti che nulla a che fare con Gaber? E Morandi, con le sue canzonette? E Mogol che parla solo di sé?
Cosa possiamo aspettarci da un regista che nella sua vita ha realizzato solo filmetti per adolescenti rincoglioniti?
E ancora, perché hanno solo accennato a Maria Monti? Delusione totale per non aver potuto sentire tutta “Io se fossi Dio”. Ma che è questa stronzata di non mettere i sottopancia?
A parte il fatto che se uno ha bisogno di vedere scritto “Ivano Fossati” per riconoscerlo, il problema sta alla base.
Polemiche, polemiche, polemiche.
Io avrei fatto meglio. Io non avrei chiamato quello lì. Io avrei messo altri filmati, altre canzoni, altri aneddoti.
Sapete, uno pensa che un documentario su Gaber possa, anzi debba, fare riflettere.
Eppure, oggigiorno, riflettere equivale spesso a criticare.
Le opinioni di tutti sono sacrosante, sia chiaro. Ma davanti a Gaber e alla sua carriera, forse, bisognerebbe fermarsi, provare a comprendere i suoi neppure troppo nascosti sottintesi e stare zitti.
Ringraziare Dalia per averci permesso di assistere IN CHIARO a delle pagine storiche della nostra cultura. In silenzio, cazzo.
In silenzio.
Nel finale del documentario ci si chiedeva “Chissà cosa penserebbe Gaber, oggi, di questi nostri tempi”.
Probabilmente che i polli hanno cambiato divisa, ma sono rimasti tali nonostante tutto.
La cultura è un privilegio, non un’autocertificazione.
Come sostiene Scanzi (che Gaber lo ha conosciuto e che da anni lo racconta in teatro), questo paese appare ormai definitivamente alla deriva.
Alex Rebatto