La rubrica su Cronaca Vera del celebre criminologo Carmelo Lavorino, in esclusiva online su Fronte del Blog, racconta questa settimana uno degli aspetti più controversi del delitto di Cogne
Il delitto che coinvolse l’intera opinione pubblica italiana facendo nascere e fiorire investigatori dilettanti e voyeurismo criminologico è stato il delitto di Cogne. Era il 30 gennaio 2002. Vittima il piccolo Samuele Lorenzi, anni tre; sospettata da quasi tutti come madre assassina astuta e crudele, processata, condannata e imprigionata Annamaria Franzoni. Per qualche mese fui il consulente della famiglia Lorenzi-Franzoni. Poi, all’avvento dell’avvocato Carlo Taormina preferii andare via col mio pool per un insieme di motivi, portando con me le mie idee e le mie analisi.
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Non dedico tempo a disquisire se la Franzoni sia innocente o colpevole. Preferisco parlare di un quesito che ancora non è stato risolto: qual è l’arma del delitto? Ne abbiamo sentite di tutti colori: pentolino, paiolo, forchettone, stiletto di ghiaccio, zoccolo di legno, becco di rapace, oggetto tagliente con manico, moschettone, chiavi, roccia. Districhiamo la matassa partendo dalla fine: l’arma del delitto a mio avviso è una picozza con la parte terminale a tre canali e a tre punte. Vediamo perché.
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Le ferite su Samuele sono 17, alcune rettilinee, altre a unghia, altre ad angolo retto: tutte con la misura massima di 15 millimetri, due sono a breccia di dentifricio. Questo ci fa individuare la morfologia della parte dell’arma venuta a contatto con la testa di Samuele e ci fa concludere che la parte finale dell’arma è tale da produrre sul bambino le ferite a U, a L, a I e sul soffitto un disegno speciale, come vediamo fra poco.
Le tracce di sangue e di materia cerebrale sulla testiera del letto, sul soffitto e sulle altre zone fanno dedurre che siano state prodotte con un oggetto con un manico lungo circa cm 20 a impugnatura rigida ed agevole da manovrare: il movimento dell’arma che saliva ha proiettato il sangue facendolo sganciare dall’estremità dell’arma lanciandolo sul soffitto; il movimento dell’arma che scendeva ha proiettato il sangue sulla testiera del letto, sulle pareti e sugli oggetti.
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L’aggregazione di sangue sul soffitto è stata disegnata dalla naturale continuazione prodotta dal movimento del braccio che impugnava l’arma, la cui parte terminale lanciava il materiale cerebrale e il sangue verso il soffitto, così formando la configurazione finale, proprio quella che vediamo in fotografia e che presenta in modo costante lo stesso disegno di tre macchie equivalente a una “timbratura- proiezione a tre punte”: una presenza eccezionale che si osserva per ben cinque volte. Tale timbratura è formata da tre macchie di sangue, di cui due sulla stessa linea e la terza come vertice superiore del triangolo: tre macchie che hanno sempre la stessa direzione, quindi la stessa origine spaziale, di movimento e temporale.
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Tali macchie a “figura di tre” sono state prodotte da un attrezzo la cui struttura morfologica ha proiettato sul soffitto contemporaneamente tre parti di sangue e materia cerebrale, posizionandole sempre nello stesso modello formativo: tre vertici di un triangolo.
Quindi l’arma possiede tre canali situati a pochissimi centimetri l’uno dall’altro che terminano con tre punte, tali da catturare sangue e materia cerebrale, per poi proiettarli verso il soffitto componendo la “timbratura a tre punte”.
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Un’arma del genere, per tutte le caratteristiche che abbiamo individuato e definito, può essere soltanto una picozza a tre punte, quella che vediamo in fotografia. L’assassino è salito sopra il letto impugnandola con la mano destra e ha iniziato a colpire il bambino: ad ogni colpo alzava l’arma proiettando prima il sangue sulla testiera del letto e sulla parete, poi sul soffitto (effetto cast off) così disegnando quell’insieme a figure di tre; successivamente abbassava l’arma, lanciando il sangue sulla parete, sul comodino, sul letto e sugli oggetti, così producendo macchie a forma di lancia e disegnando altre formazioni ematiche (effetto aspersorio).
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Giusto per la cronaca, qualche giorno prima del delitto la picozza della famiglia Lorenzi era sparita, per mai fare ritorno.
Carmelo Lavorino per Cronaca Vera