A 33 anni dal delitto di via Poma è ancora mistero fitto sul nome del responsabile dell’omicidio di Simonetta Cesaroni. A Cronaca Vera parla Carmelo LavorinoIl celebre criminologo portò al proscioglimento di uno dei primi sospettati, il giovane Federico Valle. Ma non ha mai smesso di indagare. Ecco cos’ha raccontato al giallista Rino Casazza
Questo agosto ricorre il 33° anniversario della morte di Simonetta Cesaroni, trovata uccisa da una gragnuola di colpi di arma bianca negli uffici dell’A.I.A.G. in via Poma a Roma.
Un delitto ancora insoluto nonostante tre tentativi giudiziari falliti per dimostrata innocenza dei sospettati, molte altre indagini infruttuose da parte degli inquirenti, ma soprattutto un’infinità di ipotesi di ricostruzione avanzate dai commentatori più vari.
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Carmelo Lavorino, investigatore e consulente forense con un curriculum professionale vastissimo e significativo, nonché studioso e docente di criminalistica e criminologia, è l’esperto che più e meglio di tutti ha potuto approfondire il delitto di via Poma, avendo partecipato come consulente della difesa a uno dei procedimenti penali conclusisi senza esito, quello di Federico Valle, uno dei primi innocenti sospettati e finiti nel tritacarne della giustizia.
Da questa conoscenza diretta sono scaturiti suoi numerosi scritti sull’argomento, comparsi su giornali e riviste, confluiti poi in alcuni saggi accuratamente argomentati, ultimo dei quali “Via Poma, Inganno Strutturale tre”.
Lavorino ha individuato una pista che, restringendo il campo dei sospetti attraverso elementi di fatto scientificamente e investigativamente affidabili, è in grado di portare all’assassino.
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«Devo purtroppo constatare che nei miei confronti c’è una conventio ad excludendum – ci dice – Nonostante da anni esponga non chiacchiere ma dati oggettivi, le mie tesi non vengono ascoltate per partito preso. Sarà forse perché ho già dimostrato più di una volta, su aspetti fondamentali del caso, gli errori degli inquirenti, emendandoli? Viene da pensare che si tema che la mia ipotesi di soluzione, rivelandosi corretta, metta a nudo l’incapacità complessiva degli investigatori istituzionali. Trovo incomprensibile e deplorevole anche l’atteggiamento della grande stampa che, invece di dare adeguato risalto alla mia posizione, la trascura del tutto, preferendo riprendere, con rilievo eccessivo, le teorie imprecise e dilettantistiche dei cosiddetti “pomologi”, i ricercatori privati dediti a sviscerare il caso specie sul web».
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Quali sono i principali elementi oggettivi da lei indicati di cui ci si ostina a non tener conto?
«Nel 2011 la Cassazione mi ha dato definitivamente ragione, stabilendo che il sangue ritrovato su un telefono di via Poma, appartenente all’assassino, è di gruppo A con DNA DQalfa 4/4. È provato che questa tipizzazione di gruppo sanguigno e DNA si riscontra nel 2,6 per cento della popolazione. Al tempo, l’analisi del DNA non permetteva di individuare, come oggi, la persona singola, ma solo la classe omogenea cui apparteneva, comunque significativa. È altrettanto acclarato, in sede di perizia necroscopica, che la grave lesione riportata da Simonetta Cesaroni sulla tempia destra è dovuta a un violento colpo a mano aperta portato con la sinistra dall’aggressore. In simili situazioni di alta tensione emotiva, se si deve attaccare qualcuno si usa sempre la mano di uso prevalente. En passant anche tutti gli altri colpi sferrati dall’assassino con l’arma da taglio sono pienamente o esclusivamente compatibili con l’uso della sinistra. Segnalo che incrociando le statistiche di frequenza di individui di gruppo A DQalfa 4/4 con quelle degli individui mancini (1 su 10) otteniamo che può avere entrambe le caratteristiche, e dunque essere l’assassino di Simonetta, solo una persona su circa 400».
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Veniamo all’arma del delitto.
«Essa è uno dei tagliacarte in dotazione degli uffici A.I.A.G. di via Poma. Impensabile che l’omicida, avendo ucciso per improvviso scatto di furore, avesse portato con sé un coltello.
Sappiamo anche quale dei tagliacarte è stato usato per colpire Simonetta: quello che si trovava nella stanza del delitto occasionalmente, ma il suo posto usuale era la scrivania di una delle impiegate, in un’altra stanza. E infatti dopo l’omicidio è stato pulito e rimesso lì. Peccato che la mattina del 7 agosto, l’impiegata a cui apparteneva non lo trovava, tanto che era stata costretta a chiederne in prestito un altro. Evidentemente, un passo falso non tanto del colpevole – che doveva sapere da dove aveva preso il tagliacarte – ma di qualcun altro – un complice come vedremo- intervenuto sulla scena dopo che il colpevole se ne era allontanato».
Via Poma Inganno Strutturale Tre
Un complice?
«Io lo chiamo pulitore rassettatore perché, chiamato in aiuto dall’assassino usando il telefono sporco di sangue, oltre a fornirgli rifugio in casa propria, situata all’interno del complesso di via Poma, per ripulire i vestiti dalle tracce di sangue e/o cambiarsi, si è adoperato a cancellare le impronte digitali lasciate nell’appartamento dal suo protetto, che lo avrebbero inchiodato. È questo il motivo per il quale costui ha deterso il sangue intorno al corpo usando i vestiti di Simonetta, mai ritrovati, infatti. Il suo lavoro sulle impronte è risultato così ben fatto che la polizia scientifica nel suo sopralluogo non è riuscita ad evidenziarne neanche una nella stanza del delitto, a parte quella lasciata da uno degli scopritori del cadavere».
C’è dell’altro, però…
«Un altro punto essenziale è l’orario della morte di Simonetta, collocata dopo le 17 e 30 perché la ragazza risulta aver tenuto a quell’ora una conversazione telefonica con una collega. Il medico legale si limita a indicare per il decesso un intervallo molto più ampio, che va dal primo pomeriggio alla sera. In realtà il contenuto gastrico permette di anticipare la morte tra le 16 e le 16 e 30, così che anche il colloquio al telefono della ragazza va anticipato».
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