La vera storia di Gino Girolimoni, il primo, scandaloso e mai ripagato errore giudiziario dell’Italia moderna
Questa è la storia di un cognome che diventa un modo di dire perché le parole hanno una loro metà oscura. Una parola che sul dizionario non si trova: girolimoni. Essa indica un maniaco sessuale con un’attrazione insana per i bambini, e si usa pronunciarla con ironico disprezzo. Il termine “‘girolimoni”, compare nei titoli della cronaca nera tutte le volte che un adulto viene coinvolto in una vicenda di pedofilia.
Tutto inizia il 31 marzo del 1924 nel rione Monte Mario di Roma.
Da dietro una siepe di un campo esce una bambina in lacrime, coi vestiti stracciati, le mutandine in mano e un fazzoletto stretto alla gola. La bimba viene soccorsa dalla proprietaria del terreno che, insieme ai clienti di una vicina osteria, la porta all’ospedale. La piccola si chiama Emma Giacomini, ha solo sette anni e ha subito violenza carnale.
Non finisce qui.
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Una sera di giugno del 1924, in quella che sembra una dolce serata estiva, odorosa di gelsomino, dove la gente cammina per le strade con il gelato in mano e i bambini giocano fra vicoli e piazze, una bambina di tre anni scompare. Il suo nome è Bianca Carrieri. Una donna l’ha vista prima giocare in strada con gli altri bambini, e poi allontanarsi con un tizio elegante, vestito di grigio, verso Trastevere. Da questo momento se ne perdono le tracce. Il giorno dopo, in un prato dietro la Basilica di San Paolo, allora una zona di campagna, viene ritrovato il suo corpo, malamente coperto da fogli di giornale.
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Cinque mesi dopo succede ancora. Una bambina di due anni, Rosina Pelli, mentre gioca vicino alla madre che chiacchiera con le amiche, improvvisamente sparisce. Viene ritrovata morta ammazzata a distanza di un giorno, di nuovo nel quartiere di Monte Mario.
Passano altri sei mesi ed Elsa Berni, sei anni, viene ritrovata cadavere sul greto del Tevere. Un anno dopo Armanda Leonardi, cinque anni, sparisce e viene ritrovata in un prato, uccisa come le altre.
Sui giornali del tempo i delitti vengono relegati nelle pagine interne, con piccoli trafiletti, perché l’Italia Fascista censura le notizie di cronaca nera. Niente omicidi o suicidi, nell’Italia di Mussolini va tutto bene e di certe cose non si parla.
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Ma non ci solo i giornali a raccontare i fatti. La gente comune non li legge ma le cose le sa, le ha viste e ne è spaventata, lamentandosi perché la polizia non è ancora riuscita a prendere il maniaco.
Mussolini convoca il capo della polizia, Arturo Bocchini: «Che facciamo?» tuona imperioso. Bocchini chiama Ermanno Angelucci, questore di Roma: «Bisogna prendere a tutti i costi questo mostro!»
Il “Mostro”, così viene soprannominato, scatena una psicosi generale in cui tutti sospettano di tutti e cominciano a spuntare testimonianze.
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Tutte le volte che le bambine sono sparite, qualcuno ha visto la stessa persona.
Giovane, alto, elegante, con un paio di baffi, vestito di grigio.
I bambini che giocano per strada nei quartieri popolari raccontano che si porta via le vittime con la promessa di offrire cioccolatini. Ci sono bimbe che si sono tirate indietro per paura, rifiutandosi di seguirlo e allora lui le ha lasciate stare. Nel caso della piccola Armanda, addirittura è entrato in un’osteria, come racconta il proprietario, per offrirle una gazzosa. Poi le porta in luoghi isolati, le soffoca con un fazzoletto e e le stupra. Dalle autopsie sui corpicini non risultano tracce di sperma, ma vi sono evidenti lacerazioni genitali.
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L’indagine della polizia si concentra sul registro dei pregiudicati per reati sessuali, sui tossicodipendenti e sui vagabondi. Non è che c’entrino molto con gli identikit forniti dai testimoni, indicanti un uomo dall’aria signorile, ma fa lo stesso.
Su segnalazione di un investigatore privato viene arrestato un vagabondo che confessa i delitti, ma non è vero, costui è un poveretto che si è inventato tutto. Poi è la volta di un vetturino che guida carrozzelle per Roma, un tipo violento con un brutto carattere. Sospettato dei delitti, si suicida bevendo una bottiglietta di acido muriatico. Anche lui non è il “Mostro”. Allora viene arrestato un sacrestano della Chiesa di San Giuseppe, notato mentre regala santini ai bambini.
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Anche lui confessa, ma con così tante contraddizioni che gli inquirenti capiscono di aver fatto un altro buco nell’acqua.
L’assassino resta libero, la gente se la prende con il questore che se la prende con il capo della polizia. E si arrabbia anche Mussolini, che offre una taglia di 50.000 lire, un sacco di soldi per quegli anni, e così trasforma tutti i romani in detective privati con migliaia di denunce, una più assurda dell’altra.
All’improvviso nella primavera del 1926 si comincia a puntare su un possibile sospetto, un giovane elegante dall’aria simpatica.
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Si chiama Gino Girolimoni, ha 38 anni e di mestiere fa il fotografo. Elegante e affascinante, gli piace fare la bella vita, anche più di quanto potrebbe grazie alle tremila lire che guadagna facendo il mediatore di cause infortunistiche. Ha una bella macchina sportiva, una Peugeot verde, con cui va in giro per Roma, soprattutto nei quartieri popolari, per fare impressione sulle ragazze. A Girolimoni le donne piacciono parecchio, e corrisponde alla figura, allora popolare nei romanzi d’amore e nei film in bianco e nero, dello scapolo donnaiolo impenitente.
A lui la polizia arriva sulla segnalazione del vicebrigadiere di uno dei commissariati coinvolti nei delitti, tale Giampaoli. Costui lo aveva visto aggirarsi più volte proprio in quei quartieri. La polizia decide di tenerlo sotto controllo e lo pedina. Un pomeriggio lo vede chiacchierare con Olga Nardicchioni, una ragazzina di 12 anni a servizio presso la famiglia di un ingegnere, e sembra che voglia convincerla a salire in macchina. La ragazzina non sale, si allontana, ma per la polizia è la prova di un adescamento.
Il 10 maggio del 1927 Girolimoni viene fermato e portato in commissariato dove viene messo a confronto con i testimoni. Lo riconoscono tutti, gridando come pazzi: «È lui è lui!»
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La polizia perquisisce casa sua, e gli trova parecchi completi eleganti, una camicia sporca di sangue, e autoritratti diversi, col cappello, senza vestiti, e anche foto che ritraggono scorci del fiume Tevere e gruppi di bambini.
Saltano fuori conoscenti e amici a confermare che sì, è sempre stato strano, nervoso e a volte violento.
Ma alcuni testimoni tra quelli che hanno visto davvero qualcosa non lo riconoscono.
Gino Girolimoni nega, nega sempre: «Non è vero, con quei delitti non ho nulla a che fare! »
Clamoroso il caso del signor Massaccesi, proprietario di un’osteria e testimone di un fatto avvenuto il giorno prima del ritrovamento di Armanda Leonardi, l’ultima delle bambine uccise.
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Quel giorno, nella sua osteria di Via Giraud era entrato un uomo in compagnia di una bambina; alto, ben vestito con un forte accento del nord, aveva ordinato da bere per entrambi e l’oste si era insospettito. Appena si era allontanato dalla bambina ne aveva approfittato per farle alcune domande. Accertatosi che quello era il padre della piccola, si era tranquillizzato. Quando però vede la foto della Leonardi sul giornale, Massaccesi crede di riconoscere la bambina vista il giorno prima e si reca in questura a raccontare l’episodio. Una volta arrestato Girolimoni, l’oste viene convocato in questura per il riconoscimento, ma non lo identifica con la persona vista quel giorno in osteria.
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Nonostante gli insistenti tentativi di persuasione degli inquirenti, Massaccesi sostiene che quell’uomo era più magro e con un colorito acceso del viso . Allora la polizia mette a digiuno il povero Girolimoni, e prima di incontrare di nuovo Massaccesi lo forzano a bere un litro di vino. L’oste alla vista dell’uomo smagrito e rosso in viso, pressato dal maresciallo, afferma che sì, forse, quel Girolimoni potrebbe corrispondere all’uomo dell’osteria.
Finisce tutto a verbale e Gino, accusato e disprezzato da tutti, viene trasferito in carcere a Regina Coeli. Per la polizia, per la stampa, per l’opinione pubblica, è lui il “Mostro di Roma . Il Duce ringrazia gli inquirenti facendo loro i complimenti per aver risolto il caso.
I giornali escono con titoli cubitali, riportando il suo nome come l’assassino delle bambine.
Roma dorme sonni tranquilli, il Mostro è stato preso.
Girolimoni non è il Mostro
Solo che non è così. A uccidere le bambine non è stato Girolimoni.
In un bel giallo c’è sempre un investigatore bravo che arriva a scoprire la verità.
E’ quello che succede anche in questa storia.
Il Commissario Giuseppe Dosi della Questura di Roma alla colpevolezza di Girolimoni non crede.
Ne ha già viste di storie così, in cui una persona viene riconosciuta come autore di un delitto sull’onda di una suggestione collettiva.Infatti, un po’ di contraddizioni ci sono.
Per esempio l’oste che ha riconosciuto in Girolimoni il tizio che aveva offerto la gazzosa a una delle bambine uccise. In questura si presenta un padre con sua figlia, dimostrando che sono loro due quelli della gazzosa.
Non solo. È naturale che Girolimoni, giri per i quartieri popolari, è lì che si procura gli affari. E la servetta di 12 anni segnalata da Giampaoli è il tramite per inviare bigliettini alla moglie dell’ingegnere, con cui Girolimoni ha una reazione. Ovvio che parlasse con lei in modo circospetto.
Ci sono altri sospettati.
Ad esempio,un pastore anglicano, Ralph Lyonel Brydges, su cui gravano precedenti, che nel periodo dei delitti si trovava a Roma. Dosi aveva già indagato su di lui per aver molestato una bambina. Continuando a indagare sul pastore, Dosi trova altri indizi che lo collegano agli omicidi delle bambine. In casa sua vengono trovati oggetti rilevanti, che riportano ai luoghi dove le bambine sono scomparse.
Dosi arresta il pastore ma il giudice istruttore reputa gli indizi insufficienti, anche perché è un religioso straniero, amico del console inglese, e oltretutto ha conoscenze in Vaticano.
La polizia non può far altro che rilasciare Brydges. Rientrato in possesso del passaporto, l’uomo espatria immediatamente.
Il Commissario Dosi paga per le sue indagini. Chi è lui per sostenere che la Questura di Roma, i suoi superiori, il capo della polizia, si sono sbagliati? Che si è sbagliato addirittura il Duce, complimentatosi per l’arresto del mostro Girolimoni?
Dosi viene immediatamente trasferito e poi, visto che non è politicamente affidabile, cade in disgrazia finendo anche dentro, a Regina Coeli e poi in manicomio, accusato di essere un megalomane squilibrato.
Torna in servizio alla fine della guerra e dimostra di esserlo davvero, un buon poliziotto, perché fa carriera diventando uno dei primi fondatori e dirigente dell’Interpool, per conto del quale si occupa di traffico di droga e mafia americana
E Gino Girolimoni?
Resta in custodia della polizia finché finisce davanti al giudice istruttore. Conformemente al pare dello stesso pubblico ministero, questi reputa gli indizi accumulati su di lui inconsistenti e assurdi, vere montature, e lo scagiona completamente.
Gino Girolimoni non è il “Mostro di Roma”, non è stato lui a uccidere quelle bambine.
Il problema è che quando è stato arrestato, la gente, la politica, la stampa, volevano un colpevole e il regime ne aveva bisogno per distrarre da altre notizie.
Così era finito su tutte le prime pagine come il “Mostro”. Adesso che è stato scagionato di questa brutta figura la gente, la stampa, la politica, preferirebbero non parlare. Girolimoni l’innocente viene relegato in un trafiletto a pagina quattro, tra le notizie brevi di cronaca nera.
Girolimoni continua la sua vita, anche se gli va male. Perde il suo lavoro di mediatore d’affari, fa il ciabattino e il riparatore di biciclette, e muore poverissimo nel 1961.
Sulla vicenda di Girolimoni ci sono libri e trasmissioni televisive, ci sono canzoni e anche un bellissimo film, “Girolimoni il mostro di Roma”, con Nino Manfredi per la regia di Damiano Damiani,
Ma il suo nome è diventato sinonimo di pedofilo.
“Girolimoni”: una parola che racconta una storia tutta sbagliata.