Gioacchino Genchi oggi fa l’avvocato. La sua persecuzione in polizia iniziò dopo aver risposto ad un post su Facebook del giornalista Gianluigi Nuzzi. Quattordici anni dopo giustizia è fatta. Ecco la vera storia di ciò che accadde e che narrai nel libro “Il caso Genchi”
Gioacchino Genchi sarà risarcito dalla polizia. Così ha deciso il Consiglio di Stato. Dovranno essergli pagati gli stipendi dal 2009 al 2015, inclusa la rivalutazione legale, bloccati prima per la sospensione dal servizio e successivamente per la destituzione avvenuta nel 2011. Tutte sanzioni che il ministero degli Interni si vide poi integralmente annullare: il vicequestore aggiunto fu reintegrato, andò in pensione e oggi è un noto avvocato penalista.
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All’epoca dei fatti, però, Genchi venne definito da Silvio Berlusconi «il più grande scandalo della Repubblica». Finì nel mirino per il suo ruolo come consulente informatico dell’allora pm di Catanzaro Luigi de Magistris in inchieste come Why Not e Poseidone. E venne additato per mesi sulle prime pagine di tutti i giornali con accuse surreali: raccontarono che avesse intercettato oltre 350 mila persone. Lo convocarono al Copasir, poi il Ros circondò il suo palazzo di Palermo sequestrando un famigerato “archivio”, in cui avrebbe celato chissà quali segreti.
Un rapporto dell’allora colonnello del Ros Pasquale Angelosanto (attuale generale e comandante del Reparto Operativo Speciale dei carabinieri) sostenne che avesse acquisito i acquisito i tabulati di deputati senza averne il permesso. E pure quelli dei servizi segreti. Si aggiunsero altre accuse, dalle quali, come per le prime, sarebbe stato anni più tardi definitivamente assolto: era tutto totalmente infondato.
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Anche perchè, per essere chiari fin dall’inizio, Genchi in vita sua non aveva mai intercettato nessuno. Lo sapevano le Procure e i tribunali di mezza Italia, per conto delle quali aveva sempre e solo analizzato il traffico telefonico e le intercettazioni svolte dall’autorità giudiziaria.
Lo sapevano tutti i giornalisti che lo avevano incrociato per lavoro, nelle delicatissime inchieste di cui si era occupato, di mafia e politica. Ma, incredibilmente, nessuno, o quasi, si prese la briga di raccontare la verità. Per anni sarebbe stato trattato alla stregua di uno spione, proprio lui che gli spioni, da esponenti dei servizi segreti infedeli alle talpe nella Procura di Palermo, li aveva sempre fatti arrestare.
Di fatto, tutto il suo apporto alle indagini Why Not e Poseidone – la parte più importante di quelle indagini – fu stralciata dal processo e buttata via in ossequio a quelle accuse infondate.
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Le accuse in polizia e il risarcimento
Non bastò. Iniziò la persecuzione in polizia, che lo avrebbe portato alla radiazione. Anche questa successivamente annullata dai giudici. Tutto cominciò il 19 marzo 2009, quando rispose ad un post su Facebook del giornalista Gianluigi Nuzzi, attuale conduttore di Quarto Grado e all’epoca in forza a Panorama: Genchi venne sospeso.
La polizia, guidata dall’oggi defunto Antonio Manganelli, arrivò poi a destituirlo per altre dichiarazioni rese nell’ambito dei convegni del 6 dicembre 2009 e 6 febbraio 2010. Anche quelle, col tempo, si sarebbero dimostrate accuse del tutto infondate.
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Per tale ragione, in questi giorni, il Consiglio di Stato ha condannato il Ministero degli Interni a risarcirlo e a pagargli gli stipendi dal 2009 al 2016. Quanto alle prime dichiarazioni oggetto della prima sospensione, ovvero il dialogo con Nuzzi, il Consiglio di Stato fa propria la sentenza del Tar del 2014, secondo la quale quelle frasi «non solo sono molto meno gravi nel contenuto rispetto alle precedenti, ma non risulta nemmeno provato che esse siano state rese pubbliche per volontà del ricorrente».
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La storia di Gioacchino Genchi
Al Fatto Quotidiano, Genchi ora dice: «Ben oltre le farlocche motivazioni che hanno portato alla mia strumentale destituzione dalla Polizia di Stato, annullata dai giudici amministrativi, è ormai evidente che mi hanno voluto punire per essere stato in assoluto il primo ad avere denunciato i depistaggi istituzionali sulle stragi del ’92, su cui per troppo tempo uomini delle istituzioni, magistrati e politici in mala fede hanno fondato le loro carriere». Sicchè, giova ricordare il suo passato.
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Gioacchino Genchi fu il poliziotto che individuò il covo del boss Gaetano Grado a San Nicola l’Arena, fatto che permise di scoprire che il pentito Totuccio Contorno si trovava in Italia e non sotto protezione dell’Fbi negli Stati Uniti, così come risultava a tutti.
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Nel 1992, occupandosi delle stragi di Capaci e via D’Amelio, recuperò il contenuto dell’agenda Casio di Giovanni Falcone, trovata cancellata “in maniera non accidentale” dopo il suo sequestro: vi risultò registrato un viaggio del magistrato negli Stati Uniti alla fine di aprile del 1992. Viaggio nel quale, per il procuratore di Brooklyn Charles Rose, aveva incontrato Tommaso Buscetta, anche, evidentemente, di fronte ad un piano di destabilizzazione dell’Italia di cui era stato informato il Parlamento e tutti i prefetti d’Italia. Ma viaggio che il ministero della giustizia negherà sempre, senza però dire dove si trovasse Falcone in quei giorni.
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Genchi si occupò anche di valutare se il telefono di casa della sorella di Paolo Borsellino in via D’Amelio potesse essere stato intercettato dagli stragisti. Ma fu a quel punto che, vista la piega che stava prendendo l’indagine, decise di abbandonare l’inchiesta sulle stragi, dopo una lite furiosa la notte tra il 4 e il 5 maggio 1993 con Arnaldo La Barbera.
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Nel dicembre 2009 pubblicai il libro Il caso Genchi, travolto da polemiche e richieste di sequestro (c’è chi chiese una convocazione del Copasir) che ripercorreva la storia di Genchi e le sue indagini fin dagli esordi.
E Genchi mi raccontò di quella notte, di come non fosse d’accordo con la linea inspiegabile che La Barbera stesse seguendo nell’indagine per scoprire gli assassini di Falcone e Borsellino: «Fu allora che La Barbera scoppiò a piangere. Pianse per tre ore. Mi disse che lui sarebbe diventato questore e che per me era prevista una promozione per meriti straordinari. Non volevo e non potevo credere a quello che mi stava dicendo. Ma lo ripeté ancora. E ancora. E furono le ultime parole che decisi di ascoltare. Me ne andai sbattendo la porta. L’indomani mattina abbandonai per sempre il gruppo Falcone-Borsellino. E le indagini sulle stragi».
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