Federico Umberto D’Amato, anello di collegamento tra il Viminale e la Nato, è considerato al vertice di un servizio segreto occulto nell’ultima sentenza sulla strage di Bologna: la strana storia del poliziotto che sapeva tutto di tutti
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La Corte d’Assise di Bologna ha depositato le motivazioni della sentenza con cui ha condannato all’ergastolo l’ex esponente del gruppo neofascista Avanguardia Nazionale Paolo Bellini per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980: «Possiamo ritenere fondata l’idea, e la figura di Bellini ne è al contempo conferma ed elemento costitutivo, che all’attuazione della strage contribuirono in modi non definiti, ma di cui vi è precisa ed eclatante prova nel documento Bologna, Licio Gelli e il vertice di una sorta di servizio segreto occulto che vede in Federico Umberto D’Amato, la figura di riferimento in ambito atlantico ed europeo».
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È soprattutto quest’ultimo infatti a suscitare in noi una certa curiosità. D’Amato fu per anni a capo dell’Ufficio Affari Riservati, anello di congiunzione tra il ministero dell’Interno e la Nato. Curava una rubrica di cucina sull’Espresso, ma di professione era prefetto, l’uomo di cui si diceva che sapesse tutto di tutti e che schedava i comunisti perchè, ricordò un giorno a Giuseppe D’Avanzo su Repubblica «era il mio mestiere, ho diretto l’ufficio speciale della Nato». Certo, mette i brividi pensare che l’anello di collegamento tra il Viminale e la Nato sia considerato nella sentenza per una strage al vertice di una sorta di servizio segreto occulto che avrebbe diretto elementi dell’eversione di destra protagonisti della “strategia della tensione.”
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Ma, a dire il vero, si trova traccia di lui anche in una sentenza-ordinanza del giudice istruttore di Milano Guido Salvini. In essa veniva citata la testimonianza rilasciata dall’ex generale Nicola Falde al Ros il 26 giugno 1995, in merito alla madre di tutte le stragi, quella di piazza Fontana, dopo che Falde aveva aveva fornito alcune notizie al giornalista Gianni Cipriani per il libro Sovranità limitata: «Tali notizie erano inerenti al coinvolgimento dell’Ufficio Affari Riservati nella fase di organizzazione della strage e al ruolo di copertura prestato dal S.I.D. successivamente all’operazione di strage. Preciso che con l’Ufficio Affari Riservati i miei interlocutori intendevano indicare il Prefetto Umberto Federico D’Amato e non la struttura nel suo insieme».
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Possibile che un direttore dell’ufficio speciale della Nato fosse coinvolto nell’organizzazione della strage di piazza Fontana? Nessuno potè chiedere altro, perché sia Falde che D’Amato erano defunti da tempo. Di certo anche il nome di Paolo Bellini era emerso in altre indagini: quelle sulla strage di Capaci del 23 maggio 1992, per un episodio particolare. Nel dicembre 1991 era infatti sceso in Sicilia per incontrare un mafioso conosciuto nel carcere di Sciacca. Ma non un mafioso qualsiasi: si tratta di Nino Gioè, che della mattanza in cui morì Giovanni Falcone fu il regista. Verrà fuori che Bellini era andato da lui per trattare il recupero di opere d’arte in mano a Cosa Nostra da parte dello Stato.
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Gioè non potè confermare nulla, in quanto era morto in carcere in circostanze mai chiarite poco dopo il suo arresto. Ma c’è un’altra coincidenza che vale la pena di raccontare. Il giorno prima della strage di Capaci, ovvero il 22 maggio 1992, in Italia erano in corso le votazioni per il Presidente della Repubblica e non si riusciva a trovare un accordo. Giunti al quattordicesimo scrutinio, l’Agenzia Repubblica (nulla a che vedere con il quotidiano) pubblicò una notizia che avrebbe fatto molto discutere, tanto da finire in un rapporto della Dia: «Manca ancora, perche passi in modo indolore questa candidatura del “partito trasversale”, qualcosa di drammaticamente straordinario. I partiti cioè, senza una strategia della tensione che piazzi un bel botto esterno – come ai tempi di Moro – a giustificazione di un voto d’emergenza, non potrebbero accettare d’autodelegittimarsi».
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E 24 ore più tardi il «botto esterno» ci fu davvero: l’esplosione in cui Falcone morì. Il fondatore di Agenzia Repubblica, Lando Dell’Amico, non ricordò mai esattamente chi scrisse quel lancio. A La Stampa, il 27 maggio 1992, spiegò che le notizie erano giunte da ambienti politici che «hanno accesso a fonti qualificate». Quali, non si sa. Ma in un libro autobiografico del 2013, La leggenda del giornalista spia, rivelò infine per la prima volta che un suo amico, per decenni, era stato proprio Federico Umberto D’Amato, l’ex anello di congiunzione tra il Viminale e la Nato, l’uomo che avrebbe passato «alle mie agenzie informazioni, sempre esattissime, che gli premeva diffondere».
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Per questo, oggi che D’Amato viene considerato da una sentenza al vertice di un «servizio segreto occulto», a noi sembra quanto mai opportuno che sia ricostruito con esattezza chi ispirò il lancio profetico dell’Agenzia Repubblica 24 ore prima che saltasse in aria l’autostrada di Capaci.