Partiamo da una doverosa premessa: la mostra dedicata ai Serial Killer più famosi della storia (da Aprile fino ai primi di Giugno nel quartiere Lambrate di Milano) è realizzata in maniera straordinariamente accurata.
All’ingresso viene offerta un’audioguida “cellulare” esplicativa e mai troppo morbosa nella descrizione degli eventi e dei suoi tristemente noti protagonisti.
Per apprezzare tutta la mostra occorre circa un’ora e mezza. I luoghi del delitto ricreati con manichini e ambientazioni coerenti al contesto sono ben realizzati e a tratti persino inquietanti.
Si passa da John Wayne Gacy il “clown”, a Jeffrey Dahmer. Poi Jack Lo Squartatore, Il Mostro di Firenze, Ted Bundy e tanti, tanti altri.
Disegni realizzati in carcere, lettere, oggetti personali, persino autografi.
Sulle pareti le foto delle vittime. Sgozzate, sventrate, occultate sotto delle assi in cantina. Accanto le cronistorie accurate.
Tutto perfetto?
Purtroppo no.
Nella realizzazione della mostra gli organizzatori hanno evidentemente considerato il rischio di mitizzazione dei soggetti raccontati e hanno provato, lo si percepisce, a sottolinearne il disagio mentale, la follia pura in alcuni casi.
Persino Bundy, uomo estremamente colto e carismatico, forse il più affascinante dei Serial Killer, non beneficia di sconti.
Ma si sa come funziona. Il fascino del male da sempre conquista in maniera diversa.
Capita così di trovarsi accanto un tipo si venticinque anni, tatuato dalla testa ai piedi con piercing al naso e fidanzatina al seguito, urlare da una sala all’altra “Qui che Dahmer! Jeffrey è un grande!”
Aberrante, potrebbe pensare qualcuno.
In effetti si, ma dubito ci si possa stupire ancora di qualcosa oggigiorno. Netflix ormai sforna a raffica documentari sugli omicidi più efferati, le serie Tv si concentrano quasi esclusivamente su carceri e delitti e, persino i più “morbidi” sceneggiati Rai, si adeguano.
Esistono tre categorie di appassionati di delitti:
I giallisti o presunti tali.
Gli studiosi dell’animo umano, in particolare quello più marcio.
I succubi affascinati dall’impatto mediatico e dalla cosiddetta “assenza di regole” del cattivo di turno.
La mostra di Lambrate apre la porta a tutti, ovviamente.
Non solo a quello che urla entusiasta la sua ammirazione per Dahmer (17 omicidi) ma anche a bambini che scorrazzano allegramente tra stupri, sangue e mutilazioni.
Viene da chiedersi: “Ma quale genitore degenerato può portare un ragazzino di sette anni qui?”
Poi voltando lo sguardo lo vedi e smetti di farti domande.
Questa è forse l’unica sostanziale colpa della mostra: permettere ai bambini ( dai 14 anni in su se accompagnati e sotto i cinque anni con ingresso gratuito) di vivere quelli che erano e sono incubi ad occhi aperti.
C’è un frigorifero aperto con un cartello davanti che dice “Non toccare. Frigo originale appartenuto ad un cannibale”. E accanto, saltellanti e sorridenti, due bimbi con la cresta tinta di biondo felici come alla loro ultima festa di compleanno.
Il problema, sottolineo di nuovo, non sono loro. Sia chiaro.
E’ la stupidità dell’uomo medio che reputa un omicidio come fosse una fiction. Che fissa i quadri di Gacy raffiguranti dei pagliacci quasi fossero la Gioconda di Leonardo.
Senza pensare o considerare che dietro quei quadri, quegli autografi, quelle manette e quelle matite masticate da Bundy c’è una scia di sangue che piega le gambe e provoca nausea e disgusto.
In conclusione ribadisco il mio modesto plauso agli organizzatori della mostra per il capillare lavoro svolto. Ed il mio sdegno per l’insensibilità di tanta, troppa gente.
O semplicemente disillusione per la loro profonda stupidità.
Articolo & Foto di Alex Rebatto