PRIMO ATTO
Papà a cena mi guardava di traverso, si accendeva una sigaretta e mi soffiava il fumo in faccia.
“Quanto cazzo ti ci vuole a finire?”
Il piatto di minestra mezzo vuoto, gli occhi che lacrimavano.
Si riempiva di nuovo il bicchiere di veleno rosso che traboccava. Fino all’orlo, con la lingua a catturare l’ultima vergogna incolpevole che scivolava sul vetro consumato.
“Sono le otto”, il volume si alzava.
Le gambe cominciavano a tremare.
Mamma mi lanciava un’occhiata consolatrice mentre cominciava a lavare i piatti, piegata su lavello con uno straccio allacciato in vita e la coda bionda ingrigita troppo presto.
Un sorso ed un grugnito.
“Sbrigati”, un ruggito. Un altro sorso.
Poi arrivava inevitabile lo schiaffo. Forte, sulla nuca. La testa piegata in avanti e la fronte che colpiva il bordo del piatto.
Mamma piangeva.
“Lasciala in pace”, e in un sussurro “Ti prego.”
Il veleno gocciola attorno alle labbra, una sigaretta si spegne e la fiamma dell’accendino le restituisce speranza.
“Fatti i cazzi tuoi, puttana! E tu fila a letto. Non voglio sentirti fino a domattina. Chiaro? CHIARO?”
La corsa fino in camera, chiudendomi la porta alle spalle.
Questo cazzo di trilocale di merda costa milleduecento al mese. Trecento per la tua stanza!
Per la tua stanza di merda!
Ed io, chiusa nella mia stanza costosa mi rifugiavo sotto le coperte, la faccia affondata nel cuscino per non dargli soddisfazione. Piangevo in silenzio, controllando i singhiozzi e le lacrime.
Sognavo tramonti sulla spiaggia, il respiro delle onde che s’infrangevano sugli scogli. Un amico che non mi facesse quelle solite insostenibili domande.
“Come mai quel sangue sulle labbra?”. “Perché ha un livido sull’occhio?”
Io ero sola in mezzo al mare sulla mia barchetta. Una vela, il vento, l’acqua.
Era bello sentirsi ancora viva.
La mattina, diretti a scuola. Il solito traffico, il grembiule stirato ed un euro in tasca per la merenda.
“Quel cazzo di euro mi è costato uno sbattimento in fabbrica, lo capisci vero?”
“Si, papà.”
“Il caporeparto, quel pezzo di merda che mi odia, mi ha fatto un discorso del cazzo. Tu fai qui, fai là. Sai come funzionano queste cose?”
“Si, papà.”
“Ma che ne sai? Non sai nulla. Domani ci possiamo trovare con il culo per terra. Altro che bistecca e lasagne. Pane e cipolle e vaffanculo a tutto. Vorresti mangiare cipolle, stasera? Vorresti?”
“No, papà.”
“Appunto. Dillo a tua madre che mi rompe le palle ogni cristo di giorno con i soldi della spesa. La spesa! La spesa! Con quella sua voce piagnucolosa del cazzo. Come se i soldi mi uscissero dal culo.”
Una macchina ferma al semaforo. Si affaccia Matteo e mi saluta. Abbassa il finestrino.
“Ciao, Adele. Ci vediamo all’ingresso.”
Papà passa col rosso.
“Moccioso inutile”, dice. “Lo sai chi sono i suoi genitori?”
“No, papà.”
Ridaccchia e si accende una sigaretta.
“Due froci. Sono sempre lì, mano nella mano, a dirsi schifezze nell’orecchio. Li ho visti alla festa di natale. In che cazzo di mondo finiremo. Sai cosa vuol dire questo?”
“No, papà.”
Ride, è difficile vederlo ridere.
“Che quel tuo amico verrà su un frocio come loro. Una vita di merda. Vuoi davvero uno così come amico?”
Si aspetta una risposta ed io non posso permettermi di pensarci.
SECONDO ATTO
Papà mi ha raccontato una storia incredibile.
“Ci crederesti?”, un sorriso. “Ero l’ultimo della fila e quando sono arrivato lo sportello era magicamente chiuso.”
“Come mai?”, ho chiesto.
“Mah, forse ero in ritardo. O forse il tipo del comune era un po’ razzista e ha chiuso quando ha visto che ero nero.”
“Ma tu non sei nero!”, ho esclamato.
“Allora ero in ritardo”.
L’ho fissato per qualche secondo poi sono scoppiato a ridere.
“Sei proprio scemo!”
“Mai quanto te. Sai cosa c’è stasera per cena?”
“Lasagne?”
“Acqua.”
“Pollo?”, faccia delusa.
“Acqua. Te lo dico?”
“Spara.”
“Cipolle.”
“E’ uno scherzo vero?”
Mi ha preso per mano. “Vieni a vedere.”
In cucina papà stava friggendo anelli profumati e canticchiava una vecchia canzone di Guccini.
“Che mi dici ora?”
“Dimmi che c’è la maionese, ti prego!”
I miei papà, all’unisono, si erano buttati in ginocchio.
“Maionese! Ecco cosa ci siamo dimenticati!”
“Va bene lo stesso la salsa di soia?”, ammiccando.
“Nooooo.”
Papà ha rovistato in dispensa.
“E’ quella più economica perché ho avuto qualche problema”, sembra scusarsi.
Si guardano e non riescono a nascondere un’ombra d’imbarazzo.
“Sembra buonissima”, ho esclamato rubandogli il vasetto dalle mani.
“Fermati, guascone!”, e partiva l’inseguimento.
“Guarda, Matteo. La tua amica. Come si chiama?”
Mi ero sbracciato dal finestrino ma lei sembrava non essersene accorta.
“Adele. Ma non mi vede? La sto chiamando.”
“Chiamala più forte.”
Ho urlato, ma aveva lo sguardo basso.
“Nulla. Non mi sente. Papà, posso chiedervi un favore?”
“Spara.”
“Possiamo invitarla da noi per un pigiama party?”
“Beh, se ai suoi genitori va bene, nessun problema.”
I miei papà si sono scambiati una carezza.
Ero così felice.
TERZO ATTO
Ho alzato il braccio pesante come un macigno e sorriso.
“Si”, ho risposto finalmente a mio padre.
“Lo voglio come amico.”
Alex Rebatto
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