Ci sono artisti che, per sfortuna o per difetto, vengono immeritatamente esclusi dai circuiti “alti” del cantautorato italiano. Esiste notoriamente nel nostro paese quella che viene considerata la “triade” degli intoccabili geni artistici nell’ambito musicale. Questi sono, come se fosse necessario sottolinearlo di nuovo, De André, De Gregori e Guccini.
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Poi, scendendo di un mirabolante e soggettivo gradino, arrivano i vari Vecchioni, Conte, Branduardi, Battiato, eccetera eccetera eccetera eccetera…
Magari è stata la critica a costruire quella scala, magari il pubblico. Più probabilmente la presunzione dell’uomo comune che s’impossessa di due parole, le fa sue e ci pone sopra un’etichetta “DOP”.
Se però ci preoccupassimo di scendere quella scala, scavalcare Battisti, poi Bennato, giù giù oltre i vari Jovanotti, Sangiorgi ed Elisa, dimenticandoci per qualche istante di Gaetano, Gaber e chissà quanti altri, ecco che, in un angolino volutamente nascosto dalle luci troveremmo Francesco Tricarico.
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Vi risparmio la consueta biografia, nato il, cresciuto in, che frega poco a tutti. A meno che non si tratti di Celentano, sia chiaro.
Concentriamoci su quell’ultimo gradino della scala.
Tricarico è uno dei pochi appartenenti a quel mondo che quel gradino se l’è scelto.
Non ha mai leccato il culo a nessuno cercando di fare il ruffiano, né alla critica né al pubblico.
Si è presentato al festival di Sanremo un paio di volte colpendo per la sua innocenza. Non ha mai voluto essere l’idolo a cui lanciare un reggiseno. O forse si, ma chissenefrega.
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Si è scelto un posto all’ombra dove recitare le sue filastrocche, come un Rodari in musica.
Non ha mai esibito una vocalità straordinaria, che non ha e non ha mai millantato.
Eppure, attenzione a quel che dico, ha scritto alcune delle poesie più straordinarie della musica italiana.
Chi, Tricarico? Sorriderà qualcuno.
Ebbene si, ma in una forma che noi, burocrati del lessico cosiddetto alto, non abbiamo voluto né cercato di capire.
Così, se De Andrè cantava “i figli cadevano dal calendario” e ci sembrava, giustamente, un’immagine forte e paralizzante nella sua forza impetuosa, Tricarico recitava “Amo la terra perché non mi ha mai chiesto niente.”
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Non è corretto fare paragoni, sia chiaro. Francesco non è Fabrizio e nemmeno il suo omonimo romano. Io non sono Manzoni e forse, ma forse, nemmeno Baricco. Eppure io mi permetto di evidenziare il genio di un “ultimo” che ultimo non è affatto, al contrario.
Così nel mio sottoscala pieno di ragnatele e vecchi mobili ammuffiti, mentre un giradischi da due soldi biascica tre note e quattro parole, mi concedo il lusso di una “crocefissione in sala mensa” e suggerire a tutti di ascoltare, tanto per dirne una, “Il mio amico”.
Recita all’incirca così:
“Io mi ricordo che noi stavamo sempre assieme. Lui ci faceva vedere quello che sapeva fare.”
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Volava e attraversava i muri, restituiva la vita ai gatti. Poi, un giorno, lo hanno portato via e gli hanno aperto la testa per scoprire i suoi misteri e, quand’è tornato, oltre alle cicatrici non aveva più nessun potere.
Gli avevano tolto il privilegio di poter essere speciale.
Oppure in “Tre colori”:
“Soldatini di frontiera
mille mamme aspettano
cercate di non farvi fucilar
questa storia è stata scritta
e già studiata
pensavate di doverla ripassar?“
O ancora:
“Ecco ora esco vado via dall’ospedale son turbato,
sono stanco infelice e amareggiato
ieri sera guardavo le ballerine mezze nude
ora un attimo e rischiavo di rimaner paralizzato
e allora cosa ho imparato, dico, che cos’ho imparato: che voglio sapere almeno un poco
quello che voglio fare quel che voglio inventare
allora così tranquillamente vorrò morire e ricominciare
in un cielo in un fiore, in una spiaggia o in paradiso”
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Sembrano canzoncine per bambini, vero?
Ed è questo il nostro errore. Non siamo capaci di fingerci innocenti ancora una volta. Di capire e rapportare a noi stessi le piccole grandi cose della quotidianità. Le fratture di un percorso che non capiamo o non ci interessa capire.
Questo è Tricarico. E non è importante per lui sottolineare di aver scritto un pezzo per Celentano, di aver duettato con De Gregori stesso, di essere uno dei rappresentanti assoluti della musica e della “poesia” italiana. Lui ha scelto di restare sull’ultimo gradino, a testa alta, per osservare il mondo dai piedi e disegnarlo con i pastelli.
Come i bambini che, appunto, sono i poeti più bravi.
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