Quello che non sapete di Renato Vallanzasca: “Un giorno mi disse che se avesse saputo di dover restare tutta la vita in galera, avrebbe preferito la pena di morte”. Il racconto di chi lo conosce bene, che ha visto e sentito il boss della Comasina le poche volte che è uscito dal carcere
Autore negli anni settanta di rapine, omicidi e sequestri di persona, Renato Vallanzasca, subisce per l’ennesima volta il rifiuto di una semilibertà che da anni si ostina a richiedere nonostante l’ostinato pugno di ferro delle istituzioni.
Anzi, più che pugno di ferro si dovrebbe parlare di “braccio di ferro”.
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Da una parte lo Stato, deciso nell’assegnare al vecchio bandito il titolo di “esempio per tutti”. Dall’altra il settantaduenne milanese con più acciacchi che capelli, fuori dal giro criminale da quarant’anni e colpevole, in ultima istanza, del furto di un paio di mutande e di una cesoia da giardinaggio all’Esselunga di Viale Umbria.
Un furto quantomeno curioso, quello. Un po’ perché senza senso, un po’ perché Vallanzasca in quel periodo lavorava nelle ore diurne presso un vivaio. Che motivo lo ha spinto a fregarsi delle cesoie in un supermercato quando avrebbe potuto sottrarne tranquillamente un paio tre ore prima?
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Lui ha dichiarato con fermezza di essere stato incastrato, i filmati della sorveglianza pare siano stati cancellati e tanti saluti ai permessi del 2014.
Arriviamo ad agosto di quest’anno. Rientrato da un permesso premio, presso il carcere di Bollate avviene un diverbio con un agente durante il controllo delle urine.
Scatta l’ammonimento e rispuntano sulle scrivanie le scartoffie.
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Vallanzasca viene considerato “dal carattere intemperante”, accusato di non essersi “mai ravveduto”. E, soprattutto, di non aver risarcito i parenti delle vittime.
In carcere da mezzo secolo, senza mai lavorare seriamente (e, di conseguenza, senza ottenere i relativi introiti), non si è preso mai la briga di procedere al dovuto e legittimo risarcimento.
Ora, questi sono i fatti riportati da tutti i giornali.
Quello che non sapete di Renato Vallanzasca
Passiamo a quello che non sapete.
Io ho praticamente convissuto con Vallanzasca per mesi mentre collaboravo con la sua ex moglie ad un libro sul boss Francis Turatello. Lui era in permesso per ristabilirsi da un’operazione all’anca eseguita all’ospedale Galeazzi.
Abbiamo cenato assieme un’infinità di volte. L’ho accompagnato a firmare in caserma, l’ho visto fissare il vuoto, pallido, il giorno prima di tornare in prigione.
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Un giorno mi ha chiesto di aiutarlo a scrivere una richiesta di grazia.
“Cazzo, Renato” gli ho detto. “Dovresti scriverci che ti penti e tutto il resto.”
Lui mi ha guardato con la sua solita smorfia: “Sarei un coglione se non fosse così” mi ha risposto. “Ma non ho bisogno di fare una dichiarazione ufficiale per salvarmi il culo”.
Proseguiamo. Da testimonianze attendibili diverse, ascoltate in vari momenti, ho saputo che un giorno ha salvato un ragazzo di colore da un gruppo di mocciosi che lo stavano pestando senza motivo in centro a Milano. Renato era in permesso, doveva stare fuori dai casini ed ha agito lo stesso.
Le forze dell’ordine non erano in zona.
Niente rapporti, niente cellulari: il fatto non è mai avvenuto.
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Un’altra volta, stavolta ero lì con lui, eravamo in un negozio di vestiti al Portello. Tre ragazzini stavano per fregarsi delle magliette da sessanta euro ognuna. Lui, esperto, se n’è accorto. Li ha raggiunti, ha consigliato loro di non fare stronzate e questi, probabilmente riconoscendolo, si sono dileguati da innocenti.
Le cose che ho visto e sentito
Non intendo parlare dell’atteggiamento quantomeno provocatorio di alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine, ai quali ho assistito, nei suoi confronti.
Non intendo parlare di quando andammo assieme alla presentazione di un libro del giornalista Leonardo Coen sulla sua vita e la polizia, facendo ben intendere la missione, prese tutti i numeri di targa delle auto parcheggiate fuori dal locale.
Non intendo parlare di quando Vallanzasca, senza essere visto, guardò i miei nipotini che litigavano e disse loro “la violenza non serve a nulla”. Poi, quando girandosi si accorse che lo avevo sentito, si diede un contegno e via, la solita smorfia guascona.
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La notizia è di questi giorni: la pm Adriana Blasco, benché Vallanzasca sia a tutti gli effetti “un uomo provato”, ha chiesto che gli vengano applicati sei mesi d’isolamento diurno sulla base del calcolo del cumulo pene.
Vallanzasca ha le sue innegabili colpe, sulle spalle i suoi delitti, i suoi cinquant’anni di privazioni, la coscienza grattata via dalla consapevolezza di una vita sprecata.
E’ un uomo anziano e stanco che, per come la vedo io, ha pagato.
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Non mi permetto di fare paragoni con altri criminali rilasciati fin troppo presto, anche se potrei. Ma torno per l’ennesima volta a sottolineare: c’è una sostanziale differenza tra giustizia e vendetta.
Un giorno Renato mi disse che se avesse saputo di dover restare tutta la vita in galera, avrebbe preferito la pena di morte.
“Per fortuna in Italia non c’è”, gli sorrisi.
“Forse” avrei dovuto aggiungere quella volta.
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