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Non siamo mica gli americani. O forse sì

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Il nuovo governo chiarisce una volta per tutte: Italia fedele agli americani. Come sempre, qualsiasi maggioranza vinca, le direttive non le decidiamo noi

Giorgia Meloni, nel suo intervento alla Camera per chiedere la fiducia, è stata chiarissima: «L’Italia continuerà a essere partner affidabile dell’alleanza atlantica e a dare sostegno al valoroso popolo ucraino, non soltanto perché non possiamo accettare la guerra di annessione, ma anche perché è il modo migliore per difendere anche il nostro interesse nazionale».

L’importante è essere chiari. E deve essere chiaro a tutti che chiunque vinca le elezioni il nostro interesse nazionale coincide con quello americano. La sinistra, che decenni fa vedeva negli Stati Uniti il male assoluto, è finora stata più atlantista di qualsiasi altro a far data dal 1992, quando quasi tutto il pentapartito (quasi tutto) crollò sotto Tangentopoli, e lei scoprì la vocazione americana. Una simpatia, peraltro, reciproca.

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Come dimenticare, d’altra parte, l’endorsement che Federico Umberto D’Amato, ex capo dell’Ufficio Affari Riservati e anello di congiunzione tra il Viminale e la Nato, fece su Giorgio Napolitano? Raccontava di lui a Giuseppe D’Avanzo, su Repubblica, il più yankee degli italiani: «Glielo dico in un orecchio: Napolitano era il mio candidato unico». Era il maggio 1996 e D’Amato si riferiva alla poltrona di ministro dell’Interno.

Di certo non c’è più stata da allora una crisi di Sigonella, nessun premier che abbia provato a imporre una linea diversa da Washington. E non poteva che essere così: l’Ue non ha nemmeno un esercito comune, come voluto da un documento segreto del Pentagono, datato sempre 1992, rivelato dal New York Times e mai smentito. In esso i vertici della sicurezza statunitensi scrivevano: «Dobbiamo impedire la creazione di una struttura di sicurezza strettamente europea che indebolirebbe la Nato». E si sottolineava come gli Usa potessero «agire in modo indipendente quando non si può orchestrare un’azione collettiva» evidenziando il pericolo della Russia «unica potenza del mondo in grado di distruggere gli Stati Uniti».

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Da quell’anno, in Europa, c’è stata in effetti una sola eccezione alla linea unica americana: Silvio Berlusconi e la sua troppo stretta amicizia con Vladimir Putin, poco prima che gli scandali del caso Ruby travolgessero l’immagine del Cavaliere e lo spread ne affossasse l’esecutivo.

Così come c’è stata alla Casa Bianca una scheggia impazzita, quel Donald Trump che si azzardò addirittura a dire di voler smobilitare la Nato e che poi perse le elezioni tra mille accuse di brogli. Ebbene, Berlusconi era recentemente tornato a gettare scompiglio a Washington, tutto a causa dei suoi audio fatti trapelare sulle origini della guerra in Ucraina. Il consigliere più fidato di Zelensky, Mikhaylo Podolyak, gli ha dato perfino dell’ubriaco. E bisognava che il nuovo governo Meloni chiarisse subito. Ma cos’aveva detto di così grave il Cavaliere?

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Cose, per taluni, davvero irricevibili: «Nel 2014 a Minsk, in Bielorussia, si firma un accordo tra l’Ucraina e le due neocostituite repubbliche del Donbass per un accordo di pace senza che nessuno attaccasse l’altro. L’Ucraina butta al diavolo questo trattato un anno dopo e comincia ad attaccare le frontiere delle due repubbliche. Le due repubbliche subiscono vittime tra i militari che arrivano, mi si dice, a 5-6-7mila morti. Arriva Zelensky, triplica gli attacchi alle due repubbliche…».

In effetti, il rapporto del 2014 di Amnesty International, che non risulta essere tacciabile di complottismo, recitava: «Le milizie ucraine e le forze separatiste sono responsabili di crimini di guerra». Quindi: filorussi e ucraini responsabili entrambi di fatti atroci.

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E nel 2020-2021, quando Zelensky era al potere ormai da un pezzo (è presidente dal maggio 2019)? Il rapporto di Amnesty sull’Ucraina non parla di attacchi triplicati. Si limita a scrivere però, tra le altre cose: «Sono continuate le accuse di tortura e altri maltrattamenti, in particolare durante la custodia di polizia. I funzionari dei servizi di sicurezza responsabili di detenzione segreta e di tortura nell’Ucraina orientale, dal 2014 al 2016, hanno continuato a godere della più completa impunità. Sono perdurate le aggressioni da parte di gruppi che incitavano alla discriminazione contro attivisti e minoranze marginalizzate, spesso nella totale impunità. Sono state segnalate continue intimidazioni e violenze contro i giornalisti…»

E ancora: «Sono state continuamente segnalate accuse di tortura e altri maltrattamenti, in particolare di detenuti in custodia di polizia. Secondo i dati definitivi per il 2020, pubblicati dalla procura generale, questa aveva registrato 129 casi di presunta tortura…». E poi: «Non c’è stata giustizia, verità o riparazione per le vittime di sparizione forzata, detenzione segreta e tortura e altri maltrattamenti di civili, compiuti dal servizio di sicurezza ucraino e nessun sospettato è stato perseguito».

E di nuovo: «Membri di gruppi che incitavano alla discriminazione (comunemente descritti in Ucraina come gruppi di estrema destra) hanno continuato a prendere di mira attivisti della società civile, oppositori politici, giornalisti e membri di gruppi marginalizzati con molestie, intimidazioni e violenze, spesso nella totale impunità».

Si dirà: e i russi? Uguale. Solo che abbiamo deciso che i criminali di una parte erano i buoni (e ne abbiamo sempre ignorato le violenze). E quelli dell’altra i cattivi. Anche se non lo abbiamo deciso esattamente noi. D’altronde, l’ex ambasciatore italiano in Iraq, Marco Carnelos, disse a Dagospia all’inizio del conflitto che l’Italia è un Paese «a sovranità limitata». Poi, certo. Possiamo votare. E continuare a fingere di essere liberi.

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