Simonetta Cesaroni e il delitto di via Poma: quali sono le vere novità nella relazione della Commissione Antimafia? Ci sono elementi utili a risolvere il caso?In una videointervista con Paolo Cochi e l’avvocato Alessio Tranfa per Fronte del Blog, abbiamo approfondito il tema.
Delitto di Simonetta Cesaroni, all’inizio del mese di settembre la Commissione bicamerale d’inchiesta Antimafia, nell’imminenza delle elezioni per la rielezione del Parlamento, ha prodotto la sua relazione finale. Le Commissioni d’inchiesta vengono istituite con apposito atto ad ogni rinnovo del Parlamento. Vista la perdurante criticità del contrasto al fenomeno mafioso, quella Antimafia, creata per la prima volta nel 1962, è stata sempre riconfermata tranne che nella VII legislatura.
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Una Commissione d’inchiesta, secondo la Costituzione “procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni della Autorità giudiziaria”. Ciò significa che se questo organismo ha bisogno di consultare documenti, non può essergli negato; allo stesso modo i testimoni che esso convoca non possono rifiutare di presentarsi o di rispondere alle domande. Tuttavia la Commissione non ha il potere di emettere sentenze, riservate ai giudici.
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Una commissione d’inchiesta, e segnatamente quella Antimafia, produce, appunto, “relazioni” che, oltre ad avere un valore d’indirizzo politico-legislativo nei confronti del Parlamento, si rivolgono alla Magistratura affinché nelle proprie indagini tenga conto di quanto vi si trova accertato e argomentato.
La relazione finale della Commissione Antimafia nella legislatura uscente contiene una sorpresa, di cui tutta la stampa ha riferito: uno degli argomenti su cui si esprime è l’omicidio di Simonetta Cesaroni nell’agosto del 1990, caso giudiziario ancora insoluto che, a prima vista, non sembra avere alcuna relazione con l’attività della Mafia.
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Prima di addentrarci nelle conclusioni della Commissione sul notissimo “giallo di via Poma” cerchiamo di chiarire perché questo organismo ha ritenuto di doversene occupare. Al riguardo aiutano le dichiarazioni di una delle persone che la Commissione ha sentito in audizione in proposito, il giornalista e scrittore Igor Patruno (vedi ad esempio questo suo intervento in una trasmissione radiofonica) conosciuto per i suoi numerosi scritti, narrativi e saggistici sul delitto di Via Poma, accompagnati da assidui interventi sul web e sui social.
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Nel tempo la Commissione antimafia, in linea con l’indirizzo della DIA (Direzione Investigativa Antimafia), ha ritenuto proprio terreno di azione l’area grigia di contiguità/collusione tra apparati dello stato infedeli e organizzazioni criminali. Ricordiamo, a riprova di ciò, l’istituzione del reato di “concorso esterno in organizzazione mafiosa” e il caso, giunto recentemente a sentenza, della “trattativa stato-mafia”.
I molti che si interessano al caso di via Poma sanno che le indagini hanno trovato, sia nell’azione criminosa che negli sviluppi immediatamente successivi, tracce di possibili interferenze e atti di depistaggio da parte di forze oscure.
La relazione finale della Commissione, al capitolo dedicato al delitto di Simonetta Cesaroni, appare chiaramente mossa dall’intento di esplorare i risvolti torbidi che, in questo “cold case”, suggeriscono il sovrapporsi a un efferato e odioso femminicidio ante litteram l’opera di occultamento e maliziosa complicazione dei fatti da parte di una longa manus potente e oscuramente interessata.
In realtà niente di nuovo, perché già da tempo i più avveduti analisti sull’ omicidio di Simonetta Cesaroni concordano nell’individuare sulla scena criminis e sul corpo della vittima tracce di una “doppia catena causale”, ovvero oltre all’azione diretta dell’omicida quella di uno o più altri soggetti, intervenuti, con finalità che potrebbero andare oltre il semplice favoreggiamento, per aiutarlo a non essere scoperto o comunque a confondere inestricabilmente prove e indizi.
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Il pronunciamento della Commissione Antimafia ha visto amplificare la sua eco in considerazione della notizia che la Procura romana ha aperto un nuovo fascicolo sul delitto di Via Poma a seguito dell’esposto presentato dalla sorella di Simonetta Cesaroni, supportata -pare – proprio da Igor Patruno.
Anche la congiunta della vittima figura tra i soggetti ascoltati dalla Commissione Antimafia durante i propri lavori.
Passiamo all’esame dei punti toccati dalla relazione , precisando che, non essendo al momento disponibile al pubblico la versione integrale, ci baseremo sugli ampi e significativi stralci pubblicati e commentati sui giornali, in particolare in questo articolo dell’edizione romana di Repubblica.
LA COMMISSIONE SUL DELITTO DI SIMONETTA CESARONI
1) LE DICHIARAZIONI A “CHI L’HA VISTO” DI UN COINQUILINO DI VIA POMA CON SANGUE DI GRUPPO A
In una recente puntata della trasmissione “Chi l’ha visto” è stata intervistata una persona di cui s’ignora il nome, resa irriconoscibile non mostrandone il viso e alterandone la voce.
Costui, oltre a dichiarare di appartenere al gruppo sanguigno A – vedremo di seguito perché questo è un elemento sensibile ai fini dell’inchiesta – ha affermato che ai tempi del delitto di Simonetta Cesaroni lavorava come professionista in un’ufficio ubicato nello stesso stabile in cui si consumò il crimine.
La Commissione ritiene significativa questa testimonianza non tanto perché questo personaggio potrebbe essere l’assassino, ma perché rientra tra quanti possiedono due requisiti ritenuti fondamentali per l’omicida.
Vediamoli:
1) si trovava in una condizione favorevole per commettere l’omicidio e poi fuggire, grazie alla conoscenza del palazzo di via Poma e alla disponibilità di un punto di appoggio, appunto il locale in cui lavorava, per eventualmente nascondere tracce del delitto o corpi di reato;
2) il suo gruppo sanguigno corrisponde a quello di una traccia ematica, rinvenuta sulla scena criminis, che le indagini scientifiche hanno attribuito all’assassino.
Va notato, in primis, che le indagini sul delitto di Simonetta Cesaroni fin da subito si sono orientate verso un colpevole c.d “territoriale”, ovvero qualcuno che frequentava abitualmente il palazzo. Lo dimostra che il primo sospettato fu il portiere dello stabile, Pietrino Vanacore e successivamente fu indagato Federico Valle, nipote di un anziano avvocato lì abitante.
Lo stesso terzo imputato del delitto, rinviato a giudizio e poi assolto, Raniero Busco, fidanzato di Simonetta Cesaroni, aveva tra gli elementi a sua discolpa la circostanza che non conosceva lo stabile di via Poma o comunque non risultava essersi precedentemente incontrato lì con Simonetta.
Così si può dire che l’ipotesi alternativa, ovvero che qualcuno trovatosi a passare occasionalmente per l’edificio abbia aggredito e ucciso la vittima, è oramai pressoché unanimemente considerata da scartare.
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Certamente un coinquilino di via Poma con le caratteristiche del testimone sconosciuto di “Chi l’ha visto” è un “territoriale” sospettabile e, in linea teorica, potrebbe valere la pena indagare in profondità su tutti gli altri che al tempo condividevano gli stessi requisiti.
Resta tuttavia il fatto che, secondo quanto persuasivamente sostenuto da Paolo Cochi nel libro”Via Poma oltre la Cassazione. Cronaca di un delitto senza giustizia“, la categoria di “territoriali” che, sulla base degli elementi di fatto esistenti, sembra essere di gran lunga la più sospettabile sono gli impiegati e dirigenti dell’ufficio AIAG di via Poma.
Ricordiamo, a tal proposito, l’opinione del criminologo Carmelo Lavorino – profondo conoscitore del caso in quanto membro tecnico del collegio difensivo di Federico Valle – che, nel suo libro “Via Poma, inganno strutturale tre”, restringe il campo dei sospetti ai collaboratori dell’AIAG e alle persone che ruotavano intorno alla portineria di Via Poma.
Nella citata intervista per Fronte del Blog, Paolo Cochi e l’avvocato Alessio Tranfa sottolineano come, in assenza di altre prove solide, difficili da reperire a trent’anni di distanza dai fatti, i soli indizi della disponibilità di un locale nel palazzo e dell’appartenenza al gruppo sanguigno A siano insufficienti a battere con reali possibilità di successo la pista indicata dalla Commissione.
2) LE CREPE NELL’ALIBI DEL PRESIDENTE DEL COMITATO LAZIALE DEGLI OSTELLI DELLA GIOVENTU‘
Una doverosa premessa: l’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno, a cui si riferisce quest’altra segnalazione della Commissione Antimafia, è di recente defunto, e non è mai stato formalmente indagato o processato per il delitto di Via Poma.
La Commissione segnala, o meglio torna a segnalare – visto che il documento era già comparso negli atti dell’inchiesta -un appunto redatto da un funzionario della Digos nel 1992, leggi qui l’articolo di Repubblica riportante la notizia. L’informativa sembrerebbe gettare ombre sull’innocenza dell’avvocato Caracciolo riguardo all’omicidio di Simonetta Cesaroni. Ricordiamo che, secondo le indagini svolte, il professionista scomparso era lontano da Roma nell’intervallo di tempo in cui è avvenuto l’omicidio.
Innanzitutto l’appunto informa che Caracciolo, abitante nell’edificio accanto a quello del delitto, “sarebbe noto fra gli amici per la dubbia moralità e le reiterate molestie arrecate a giovani ragazze, episodi che seppure a conoscenza di molti non sarebbero mai stati denunciati grazie anche alle ‘amicizie influenti’ dallo stesso vantate”.
Più significativo il resto, riguardante confidenze rese dalla portiera dal palazzo dove l’avvocato risiedeva.
La donna, la cui testimonianza non fu mai formalmente raccolta, avrebbe sostenuto che “il giorno del delitto, pressappoco nell’ora riportata dai media come quella presunta dell’omicidio, l’avvocato sarebbe rientrato affannato e con un pacco mal avvolto presso la propria abitazione, per poi uscire con una grossa borsa”.
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Visto che l’interessato non è più in vita, non sappiamo che valore possa avere interrogare oggi la portiera citata, e le altre persone che ne avrebbero raccolto le confidenze. Più produttivo chiarire perché gli inquirenti non abbiano preso in considerazione l’appunto quando, trent’anni fa, venne formulato.
Paolo Cochi e Alessio Tranfa nell’intervista ricordano che l’avvocato Caracciolo non solo non aveva il sangue di gruppo A, ma era risultato anche negativo al confronto, effettuato nel 2004, con le tracce di DNA rinvenute sul corpetto della vittima.
A dimostrazione che gli inquirenti avevano ben chiara l’attenzione da riservare alla categoria allargata dei “territoriali”, in quella circostanza il test genetico riguardò 30 persone implicate nell’indagine tra cui alcuni coinquilini di via Poma. Cochi e Tranfa sono convinti che la via maestra per scoprire l’autore materiale del delitto rimanga estendere quell’analisi genetica ad altri soggetti potenzialmente sospettabili.
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Con riguardo a questa “prova scientifica” v’è da dire che essa concerne profili di DNA estratti da oggetti, segnatamente corpetto e reggiseno indossati da Simonetta al momento dell’aggressione, non conservati a regola d’arte per indagini genetiche.
Una trascuratezza giustificata dal fatto che all’epoca questa branca della medicina era troppo embrionalmente sviluppata per poter dare un utile contributo alle indagini criminali. Oggi inoltre, sottolineano sempre Cochi e Tranfa, non esistono più residui di materiale biologico per effettuare altri test.
Rimane tuttavia la traccia scritta delle sequenze cromosomiche, confrontabili con analoghe trascrizioni ricavate dall’analisi del materiale biologico prelevato a eventuali sospetti. Poiché ciascun profilo di DNA ha la sua trascrizione specifica, sarebbe possibile accertare attendibilmente una eventuale corrispondenza anche, per così dire, solo “sulla carta”.
Memori di quanto accaduto col profilo di “ignoto 1″ nel caso Bossetti/Gambirasio, aggiungiamo che rimarrebbe in ogni caso aperto il problema del ” diritto di controanalisi”, ovvero la replica in contraddittorio tra accusa e difesa dell’estrazione dei due profili genetici da confrontare.
Da tener presente inoltre che il cattivo stato degli indumenti su cui si è effettuato il prelievo del materiale biologico potrebbe diventare oggetto di motivata obiezione da parte della difesa di un eventuale imputato.
3) I REALI RAPPORTI TRA L’AVVOCATO CARACCIOLO E PAOLO VOLPONI, PRINCIPALE DI SIMONETTA
E’ noto che Paolo Volponi, datore di lavoro di Simonetta Cesaroni al tempo dell’omicidio ha sempre negato sia di conoscere i locali dell’AIAG di via Poma, sia di essere in rapporti confidenziali con l’avvocato di Sarno. Le stesse fonti indicate nel punto precedente, ovvero la portinaia e alcuni coinquilini del palazzo dove abitava il Presidente dell’AIAG, lo smentirebbero. Salvatore Volponi, segnala la Commissione, sarebbe stato visto più volte citofonare all’abitazione dell’avvocato Caracciolo, il quale lo raggiungeva in strada per passeggiare insieme.
Si tratta di un dettaglio che confermerebbe il ruolo ambiguo nella vicenda del delitto di Simonetta Cesaroni da parte sia di Volponi che Di Sarno, offrendo un altro adentellato alla teoria che i due, in complicità con altri soggetti, pur non essendo autori materiali del delitto – anche Volponi è risultato negativo al test genetico del 2004 -avrebbero partecipato all’alterazione delle prove e ai depistaggi per non far scoprire come erano andate realmente le cose, e soprattutto chi era l’assassino.
4) IL COLPO AL CAVEAU DELLA BANCA DEL TRIBUNALE DI ROMA NEL LUGLIO DEL 1999
Questo elemento segnalato dalla Commissione è il più strettamente legato a possibili commistioni tra il delitto di via Poma e sotterranee trame dei servizi segreti e/o della malavita organizzata.
Il 16 luglio del 1999 una banda guidata da un ex appartenente ai Nuclei Armati Rivoluzionari, Massimo Carminati, violò clamorosamente la filiale bancaria dentro al Tribunale di Roma non per un furto di denaro ma per prelevare, in modo mirato, il contenuto di 147 cassette di sicurezza.
Tra queste, secondo una informazione che, tuttavia – sottolineano Cochi e Tranfa – non è ufficialmente confermata, ci sarebbe stata la cassetta dell’avvocato Di Sarno. S’ignora cosa contenessero tutte queste casseforti personali. L’ipotesi investigativa è che scopo della rapina fosse impadronirsi della documentazione riservata e compromettente in esse custodita, da utilizzare a scopo di ricatto.
La cassetta di sicurezza dell’avvocato Caracciolo potrebbe essere tra quelle aperte in quanto celava carte scottanti sui suoi rapporti con centrali occulte di potere poi intervenute nel delitto di via Poma.
E’ appena il caso di dire che ci troviamo nel campo delle supposizioni, per di più allo stadio iniziale.
Ne è consapevole la stessa Commissione che, non a caso, avanza la proposta di effettuare approfondimenti specifici sull’intera vicenda del delitto di Simonetta Cesaroni attraverso una Commissione d’inchiesta ad hoc da istituirsi nella legislatura entrante.
5) LE TELEFONATE ANONIME A SIMONETTA CESARONI
Questo aspetto è il più inquietante e rappresenta forse, soprattutto se collegabile in qualche modo a quello successivo -è una nostra supposizione -, un elemento interessante sotto il profilo investigativo.
Si prende spunto da una circostanza già conosciuta ma giudicata irrilevante nel corso delle prime indagini. Un’amica aveva riferito di confidenze ricevute da Simonetta circa strane telefonate che le arrivavano quando si trovava sia negli uffici della Reli, la società di Paolo Volponi presso cui era assunta, sia negli uffici di via Poma.
L’interlocutore riattaccava senza parlare dopo che lei aveva alzato la cornetta. Rammentiamo che all’epoca i tabulati telefonici non registravano il numero delle chiamate. Qualcuno aveva ipotizzato trattarsi degli approcci da parte del maniaco che poi aveva scatenato la sua violenza sulla ragazza, una possibilità scartata per il prevalere della pista “territoriale”.
Queste telefonate anonime mute potrebbero avere un legame con altre, questa volta parlate, che il padre di Simonetta, ora defunto, riferì la figlia aver ricevuto da un “soggetto di sesso maschile, apparentemente gentile, colto, educato, che faceva degli apprezzamenti con un certo garbo”.
Anche questa circostanza era già nota, senza aver dato luogo a indagini ulteriori.
6) IL PRESUNTO FREQUENTATORE OCCULTO DEGLI UFFICI DI VIA POMA
Simonetta Cesaroni, nei due pomeriggi alla settimana in cui andava a lavorare all’AIAG di via Poma, pare avesse ricevuto disposizione di stampare il resoconto del lavoro contabile svolto e lasciarlo sulla scrivania del direttore, Corrado Carboni, nella cui stanza è stato ritrovato il cadavere della ragazza. Il dirigente poi provvedeva a trasferire i documenti alla sede nazionale dell’associazione, sempre a Roma.
Poiché Carboni non avrebbe mai confermato di svolgere questo compito personalmente, potrebbe darsi che qualcuno, finora non identificato, in possesso delle chiavi degli uffici di via Poma, si incaricasse di prelevare i documenti lasciati da Simonetta dopo che lei aveva terminato il servizio, e recapitarli alla nuova destinazione.
E’ ovvio che se questo individuo esistesse veramente, ed avesse magari a che fare con le telefonate di cui al punto precedente, individuarlo e interrogarlo sarebbe di estrema importanza.
Va tuttavia notato che gli inquirenti hanno lavorato su un elenco di collaboratori che gravitavano attorno all’ufficio dell’AIAG di via Poma ritenuto puntuale ed esaustivo.
Rivederlo a più di trent’anni di distanza, ammesso ce ne siano gli estremi, sembra essere un’impresa estremamente ardua. Peraltro, non è nemmeno da escludere che il “postino” dei tabulati sia un collaboratore dell’AIAG già appartenente all’elenco, anche se i compiti e i rapporti lavorativi di ciascun collaboratore con Simonetta sono stati valutati senza scoperte investigativamente rsignificative.
7) L’ORARIO DELLE TELEFONATE RICEVUTE DAL FATTORE DELL’AVVOCATO DI SARNO
Le telefonate che il giorno del delitto avrebbe ricevuto Giuseppe Macinati, fattore della residenza di campagna dell’avvocato Caracciolo di Sarno, da parte di uno sconosciuto che sosteneva di chiamare dagli uffici romani dell’AIAG e di voler comunicare, senza poi riuscirci, col Presidente, sono da trent’anni oggetto di discussione.
Ad oggi ancora non si sa, complice le già ricordate carenze dei tabulati telefonici, se siano state veramente effettuate, chi le abbia fatte e perché.
L’ipotesi più accreditata è che qualcuno, a conoscenza del delitto prima che venisse ufficialmente scoperto e denunciato, abbia voluto informare l’esponente di vertice dell’AIAG che nei locali dell’associazione giaceva il cadavere di una persona assassinata, per stabilire il da farsi o comunicare il già fatto prima che iniziassero le indagini di polizia .I riscontri hanno sempre collocato queste telefonate enigmatiche nella tarda sera del 7 agosto 1990.
La Commissione Antimafia sarebbe venuta a conoscenza, attraverso attendibili testimonianze, che esse, in realtà, risalgono al pomeriggio, a ridosso del momento in cui, secondo le ricostruzioni investigative e tanatologiche, era avvenuto l’omicidio.
E’ evidente che se ciò fosse confermato, prenderebbe ancora più corpo la teoria che vuole la dirigenza dell’AIAG interessata a depistare le indagini alterando la scena criminis. Ricordiamo che è oramai comunemente riconosciuto che, dopo la violenta e inconsulta azione omicida, almeno un soggetto diverso dall’assassino sia intervenuto a ripulire le tracce di sangue.
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