I Gialli di Crimen ripropongono in edicola nel mese di luglio il romanzo apocrifo “Sherlock Holmes, Padre Brown e l’ombra di Dracula”. Ecco in anteprima la prefazione, che evidenzia pro e contro dell’inedita collaborazione tra il più famoso degli investigatori professionisti e il più profondo dei detective dilettanti.
Nel presente romanzo metto in scena contemporaneamente (cosa mai avvenuta prima, almeno a quanto mi risulta…) Sherlock Holmes, l’“investigatore per antonomasia” che ha dato addirittura vita a un sottogenere della letteratura gialla, gli “apocrifi watsoniani”, ovvero storie attribuite all’amico biografo di Holmes, il dottor John Watson, e colui che merita di essere definito come il più atipico dei detective: Padre Brown.
Non molti sanno che una comparazione molto tranciante tra i due si trova nelle “Lettere dal Carcere” di Antonio Gramsci, che ho scoperto essere, da vorace lettore e intellettuale a tutto campo qual era, appassionato di letteratura poliziesca.
Riporto qui il passo:
“Il padre Brown è un cattolico che prende in giro il modo di pensare meccanico dei protestanti e il libro è fondamentalmente un’apologia della Chiesa Romana contro la Chiesa Anglicana. Sherlock Holmes è il poliziotto “protestante” che trova il bandolo di una matassa criminale partendo dall’esterno, basandosi sulla scienza, sul metodo sperimentale, sull’induzione. Padre Brown è il prete cattolico, che attraverso le raffinate esperienze psicologiche date dalla confessione e dal lavorio di casistica morale dei padri, pur senza trascurare la scienza e l’esperienza, ma basandosi specialmente sulla deduzione e sull’introspezione, batte Sherlock Holmes in pieno, lo fa apparire un ragazzetto pretenzioso, ne mostra l’angustia e la meschinità. D’altra parte Chesterton è grande artista, mentre Conan Doyle era un mediocre scrittore, anche se fatto baronetto per meriti letterari; perciò in Chesterton c’è un distacco stilistico tra il contenuto, l’intrigo poliziesco e la forma, quindi una sottile ironia verso la materia trattata che rende più gustosi i racconti.”
Prima di entrare nel merito delle stimolanti riflessioni gramsciane, faccio un “endorsement”: le avventure di Sherlock Holmes mi piacciono molto (ricordo che, al ginnasio, il mio professore d’inglese adottò come testo consigliato “The blue carbuncle” di Conan Doyle, permettendomi così di approfondire i pregi dello scrittore scozzese) ma preferisco le storie di Padre Brown.
Ovviamente, ciò significa che se, per avventura, fossi chiamato a scegliere tra i due investigatori, la mia preferenza andrebbe, sia pure dopo aver titubato non poco, a Padre Brown.
Non a caso ho scritto tre storie, raccolte nell’antologia “Gli enigmi di Don Patrizio”, con protagonista un prete investigatore che aspira ad essere (anche nel nome!) la versione italiana del personaggio di Chesterton.
Fatta questa doverosa premessa, debbo dire che l’opinione di Gramsci, con tutto il rispetto per un grande della nostra cultura, mi convince solo in parte.
Innanzitutto, se è vero che Chesterton è uno straordinario scrittore, non solo nella narrativa, ma anche come saggista, polemista e giornalista, considerare “mediocre” Conan Doyle è ingeneroso.
Di sicuro, Chesterton e Doyle sono molto diversi. Secondo una distinzione oggi in voga, potremmo dire che il primo è un autore “mainstream” mentre il secondo “di genere”.
Chesterton in realtà va considerato, per l’eterogeneità dei suoi interessi, un “letterato” a tutto campo.
Con riguardo alla narrativa, pur dovendo la sua notorietà ai racconti di Padre Brown (che aveva finito per detestare, ammettendo di sfornare una nuova avventura del prete detective quando vi era costretto da motivi di “cassetta”) non si può considerarlo uno scrittore di “polizieschi”, e non solo perché i suoi contributi a questo filone sono atipici e riguardanti il genere del racconto (oltre alla serie di Padre Brown, quella de “L’uomo che sapeva troppo”, e del “ Signor Pound”), mai del romanzo, ma soprattutto perché le sue opere di maggior impegno e spessore ( mi riferisco allo splendido “L’uomo che fu giovedì”, ma anche agli altrettanto belli “L’osteria volante” e “Napoleone di Notting Hill”) hanno un taglio originale che mescola fantapolitica, umorismo e paradosso con forti intenti simbolici ed allegorici.
Per quanto riguarda Conan Doyle, è noto che lo scrittore scozzese (in questo simile a Chesterton nel rapporto con Padre Brown!) mal sopportava Sherlock Holmes, nonostante fosse stato la sua fortuna. Prediligeva, infatti, cimentarsi in generi letterari diversi dal giallo, come il fantastico, l’avventura o il racconto storico.
La sua copiosa produzione conta numerosi contributi, di apprezzabile livello, di questo tipo. Addirittura ha prodotto un ciclo di racconti a sfondo medico, aiutato dalla laurea in medicina, anche se esercitò la professione solo nella prima parte della vita, prima di dedicarsi completamente alla scrittura.
Non mi convince nemmeno, per tornare a Gramsci, l’ascrivere Doyle (e Sherlock Holmes) alla cultura “protestante” per contrapporli alla matrice cattolica, indubitabile, di Chesterton e del suo prete “papista”.
E’ vero che Holmes dev’essere considerato un “positivista empirista”, per il rilevo che dà all’analisi razionale ancorata all’esperienza ma, proprio per questo, il suo metodo è lontano da un’ispirazione religiosa.
Gramsci tuttavia coglie nel segno nell’individuare una differenza di fondo tra il metodo investigativo di Holmes e quello di Padre Brown.
L’anonimo parroco dell’Essex è estraneo al culto dell’oggettività che caratterizza l’investigatore londinese.
Nel racconto “L’errore della macchina”, ambientato nel corso di una trasferta di Padre Brown negli Stati Uniti, c’è un illuminante scambio di battute tra un poliziotto indigeno e il sacerdote:
«…non è meglio di un mucchio di chiacchiere da parte di testimoni, la prova di uno strumento affidabile?» «Dimenticate,» osservò il compagno «che lo strumento affidabile deve essere sempre fatto funzionare da uno strumento inaffidabile.» «Cosa volete dire?» chiese l’investigatore. «Voglio dire l’Uomo,» disse padre Brown, «ossia la macchina più inaffidabile che conosca.»
Ecco: qui c’è tutto il personaggio di Chesterton.
Il sacerdote cattolico dell’Essex mette nella sua estemporanea attività investigativa l’esperienza pastorale.
Non trascura l’ausilio fornito dalle prove “scientifiche” tanto care a Holmes, ma ritiene che per far luce nelle vicende criminali sia soprattutto necessaria una profonda conoscenza dell’animo umano.
Un prete, esercitando il sacramento della confessione, è più di altri in grado di acquisirla.
Così il piccolo parroco di provincia non si lascia mai influenzare dai riscontri obiettivi, che possono essere fuorvianti, se non addirittura predisposti ad arte per ingannare l’investigatore, ma cerca di penetrare nelle motivazioni e nella psicologia delle persone coinvolte nell’inchiesta, cercando lì la chiave per risolvere il caso.
Una ventina di anni dopo la comparsa sulla scena di Padre Brown, guadagnerà la ribalta della narrativa poliziesca un personaggio, destinato a diventare immensamente famoso, alfiere di un metodo investigativo che riprende ed estremizza quello della creatura di Chesterton.
Sto parlando del Commissario Maigret, il quale dirà “io non ho idee”, sostenendo di avere come unico obiettivo quello di immergersi nell’ambiente in cui un delitto è stato commesso, entrando in empatia con le persone coinvolte.
La soluzione del caso gli arriverà da lì, perché il colpevole, spinto da passioni umane come tutti noi, non va giudicato ma compreso.
Insomma, la grandezza di Padre Brown sta nell’anticipare la detection ”psicologica” di Maigret conciliandola con i principi della detection “logico-deduttiva” di Holmes.
A ciò va aggiunto, a ulteriore merito di Chesterton e del suo personaggio, che i casi investigativi di Padre Brown, per la sostanza filosofica dell’autore e la varietà della sua cultura, sono sempre molto originali e ingegnosi.
Basta leggere veri e propri gioielli come “La forma sbagliata” o “La morte dei Pendragon” per rendersene conto.
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