Lorenzo Giroffi è un giornalista italiano vincitore di importanti premi internazionali per le sue inchieste apparse su Rai, Sky, Mediaset. Dal 2014 racconta ciò che accade nel Donbass. Ecco cos’ha rischiato a Kiev, per il fatto di essere indipendente
Lorenzo Giroffi è ancora in circolazione per una mera casualità: due colleghi che non avevano più notizie di lui hanno iniziato a fare telefonate. E lui è stato rilasciato. Perché questa è una storia che molto fa riflettere sull’informazione che ci arriva in casa da Kiev: se non sei allineato dietro le trincee, pronto a prendere le veline delle autorità ucraine come verità assolute, non solo non sei gradito, ma rischi molto di più.
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Chi è Lorenzo Giroffi
Prima di dare spazio al suo racconto, vale la pena ricordare chi sia il giornalista italiano in questione, da una da una sua biografia in rete:
Lorenzo Giroffi, giornalista, classe 1986, si laurea prima in filosofia e poi in giornalismo. Vince il premio “Reporter contro l’usura” con l’inchiesta “L’ombra del denaro”, gli viene assegnato il premio internazionale di Giornalismo “Maria Grazia Cutuli” ed il Premio giornalistico Ivan Bonfanti.
Realizza reportage sulle rivoluzioni in medioriente, sul difficile trapasso istituzionale in Kosovo e sulle frontiere di Siria, Iraq e Turchia. Da quest’ultimo realizza il documentario “Mi chiamo Kurdistan”, pubblicato dalla televisione svizzera RSI e dall’inglese Fair Obsever.
Realizza reportage per diverse testate internazionali, tra cui Sky, RTL, Mediaset, l’Espresso, RSI, Rai e Rizzoli. Segue il conflitto nella regione ucraina del Donbass, editando il documentario “Fratello contro Fratello” per uno speciale del Tg2 Dossier.
Per Rai 1 lavora allo speciale “Metropolitane”, che è il racconto di tre grandi città italiane. Di recente ha seguito le vicende della rivoluzione e del golpe in Burkina Faso, fino al mercato nero dell’oro e lo sfruttamento nelle miniere. Da quest’esperienza nasce “Burkina Faso: una transizione dorata”, andato in onda su Rai News 24.
Ha pubblicato i libri “Visioni Meccaniche” per Con-fine edizione, “Il mio nome è Kurdistan” edito da Villaggio Maori e “Ucraina, la guerra che non c’è” scritto con Andrea Sceresini per
“Baldini & Castoldi”.
Il post choc
Alcuni video suoi e di Andrea Sceresini sul Donbass sono ospitati su Fronte del Blog fin dal 2016. Ma veniamo ad oggi.
Lorenzo racconta cosa gli sia accaduto in un lungo e scioccante post su Facebook, che la dice lunga sia su cosa sia l’informazione in Ucraina, sia su quanto valgano le istituzioni italiane, i giornali, le tv e l’ordine professionale, dato che, al momento, sul suo caso vige ancora il silenzio assoluto. Forse perché tutti sono presi a leggere le veline di Kiev.
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Ecco il post, accompagnato dal selfie che vedete qui sopra:
Lo faccio con un selfie per dare il giusto peso al fatto, una briciola nella disumanità di tutte le guerre. Questa è la faccia che m’è rimasta addosso dopo l’ennesima violazione dei diritti delle autorità ucraine, che non rappresentano il popolo di chi si difende e di chi è costretto a scappare.
Il fatto. Con regolare accredito militare per lavoro giornalistico e rassicurazioni da parte delle autorità ucraine in Italia, con le quali ero in contatto dopo l’espulsione di febbraio scorso, mi sono recato a Medyka. In Ucraina volevo realizzare un documentario. In altre aree di crisi mi è già capitato di essere fermato, interrogato e perquisito, ma non ho mai subito un accanimento come quello di cui sto per scrivere.
Realizzare un reportage o un documentario vuol dire ascoltare tutti, per provare ad incontrare quelli che tra di loro si definiscono nemici. Un giornalista è lì e osserva. La diffidenza e l’ostilità per un osservatore straniero fa parte del gioco, non è nulla di nuovo e neanche una tragedia.
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Dal 2014 però le autorità ucraine hanno iniziato una campagna diffamatoria nei miei riguardi inspiegabile. Io sì, dal 2014 sono stato a raccontare anche i territori delle Repubbliche autoproclamate di Donetsk e di Lughansk. Ho ricevuto attacchi sui social, foto e dati personali su siti governativi associati ad attività terroristiche, riprese video da parte di attivisti presenti alle poche presentazioni pubbliche fatte del libro sul tema e non solo.
Accuse arbitrarie e mai motivate. Come tanti altri colleghi, nel 2015 ricevo un divieto d’ingresso nel Paese, con l’accusa d’immigrazione clandestina. Accusa falsa perché nelle Repubbliche separatiste all’epoca entrammo con regolari permessi ATO dell’SBU, con tanto di visti d’ingresso e uscita ucraini ad ogni passaggio.
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Questo provvedimento è poi scaduto, infatti molti colleghi sono tornati in territorio ucraino a lavorare. Io ero stato colpito dalo stesso provvedimento, dunque ufficialmente scaduto. Senz’alcuna comunicazione alle autorità italiane, come da prassi e come successe nel 2015, il divieto mi è stato rinnovato, senza spiegazioni e senza capi di accusa. L’ho scoperto solo a febbraio, quando sono stato respinto alla frontiera di Chop. Nelle scorse settimane, dopo vari passaggi burocratici e rassicurazioni, ricevo un accredito da Kiev. Accredito necessario a lavorare come giornalista nelle aree interessate dal conflitto.
Appena arrivati al posto di frontiera, ieri 28 aprile 2022 alle ore 13.30, vengo immediatamente fermato. Mi dicono di dover incontrare il capo di posizione. L’ufficiale però non lo incontro. Vengo condotto in una stanza con doppia porta. Vengo spogliato di tutto. Mi sequestrano telefono, soldi e passaporto.
Stracciano l’accredito che avevo e con fare sadico iniziano un interrogatorio privo di senso.
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Se solo accennavo a richieste di telefonate all’ambasciata ucraina in Italia, con la quale ero stato in contatto fino a qualche momento prima, m’insultavano e ridacchiavano.
Hanno rovistato foto personali, mail e rubrica telefonica, salvando molti numeri che ritenevano sospetti. Ad ogni numero telefonico russo o siriano in rubrica mi urlavano in ucraino, riuscivo solo a capire “terrorista”.
Con la mia super8 simulavano di filmarmi chiedendomi di sorridere per l’ultima volta, perché ero in un brutto guaio.
Hanno setacciato il mio portafogli, trattenuto una fototessera di famiglia (non mi è stata più restituita) a mo’ di minaccia. Più dicevo che un giornalista parla con tutti e più s’incazzavano.
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Alla vista della foto di mio nonno che ho con me, hanno iniziato ad insultare, dicendo che aveva i baffi come Stalin. Se mi alzavo dalla sedia per reazione mi minacciavano mostrando video di pestaggi ai prigionieri russi.
Hanno pescato mie vecchie foto di lavoro a Donetsk. Ho spiegato loro che proprio perché sono un giornalista libero in questi mesi ho avuto difficoltà ad avere dalle Repubbliche indipendentiste gli accrediti per lavorare. Nulla da fare.
Continuavano a dirmi che se tutto fosse andato bene avrei passato un po’ di tempo in carcere. L’usa e getta che avevo con me iniziano a definirla oggetto militare e non giornalistico.
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Mi ribaltano chat e messaggi privati.
I messaggi con persone con prefisso telefonico russo li fanno letteralmente impazzire. Io provo a replicare dicendo che a Donetsk non sono tutti militari, ho anche amici civili lì, come a Kiev d’altro canto e Minsk (i numeri telefonici che più destavano i loro sospetti). Continuavano a ripetermi che ero nei guai.
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In quei momenti la mia fortuna è stata che due colleghi, avendo passato da qualche ora la frontiera e non avendo avuto più mie notizie, hanno iniziato ad allertare tutte le autorità.
Una telefonata arriva al militare sadico e nel giro di qualche minuto mi restituiscono tutto, tranne quella fototessera di famiglia ancora nelle loro mani. Incontro finalmente la comandante di posizione. È lei a rinnovarmi il divieto sul passaporto. Mi fa accompagnare al confine polacco, senza darmi il documento di espulsione.
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Racconto tutto questo perché non mi è successo per mano di una milizia remota, ma in Ucraina, da soldati di un esercito per il quale in questo periodo si sprecano penne. In nessun altro arresto precedente, nei posti più disparati, mi è mai capitato tutto questo. Ad oggi come da 8 anni non so ancora di cosa sono accusato dall’esercito di Kiev.
Questo lungo sfogo non servirà a nulla. Vuole essere solo un appello a chi in questi mesi sta continuando a cercare buoni e cattivi, facogitando un lessico bellico che fa sorridere col ghigno sadico di chi minaccia la tua famiglia. Se in questa guerra sono persona non gradita per due eserciti diversi, so che non è appunto una tragedia, perché la guerra è una carogna peggiore per chi non ci deve lavorare, ma viverci, provando a scamparla. Mi sentivo però di dovermi concedere questo sfogo.
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Questo è quanto avviene realmente a Kiev. Ma gli storici inviati di guerra che hanno dubbi, come Toni Capuozzo, vengono insultati e derisi. Gli ambasciatori che fanno rilievi sulle verità assolute della NATO, come Sergio Romano e Marco Carnelos, sono ignorati. I giornalisti che scrivono ciò che vedono vengono espulsi o arrestati come terroristi.
E quando Voloymyr Zelensky appare in videocollegamento con il Parlamento italiano, i nostri politici applaudono.
Manuel Montero
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