Sono al limite.
Arrivo a non sopportare più il cassiere del supermercato che si rigira tra le mani l’ennesima bottiglia di whisky prima di passarla sul lettore mentre cerca di commiserarmi senza riuscirci.
“C’è lo sconto sul questo”, aggiunge ammiccante.
“Lo so.”
“Johnnie Walker, eh?”
“Infatti ho un problema.”
“Lo immagino.”
“Ho scordato la Fidaty.”
Fa un lavoro di merda, quasi quanto il mio. Ma non basta.
A mezzanotte posso anche essere qui, a sentire la merce scorrere sul nastro, mentre un padre di famiglia si chiede cosa cazzo abbia fatto della propria vita.
Lui è il padre di famiglia, sia chiaro. Io sono lo stronzo che gli fa perdere tempo.
Milano in primavera marcisce come negli altri mesi dell’anno.
Sotto il ponte della stazione si respira gasolio e terrore. Ci sono profilattici abbandonati sul marciapiede. Puzzano di stupri e vino a buon mercato mentre li schiacci per andare avanti correndo per rivedere la luna.
Ci sono dei ragazzi di colore che fumano, con la schiena appoggiata al muro sverginato da mille stronzate senza senso. Nomi di sconosciuti che si alternano a disegnini come all’asilo.
Sono artisti di strada, dicono.
Mi siedo in un angolo e svito il tappo aspettando quel suono che sa di furto. Mi sto rubando un altro giorno di vita e vaffanculo alle ultime auto che sfrecciano a due metri dal mio naso.
Sono puttanieri e gente d’affari.
Chi raggiunge il suo attico a City Life col portiere di notte che li attende sull’attenti.
“Bentornato dottore. Fa freddino stasera, eh?”
1250 al mese. Fa freddino, si.
L’altro che controlla nel portafoglio e fa i conti: gas, luce, spese condominiali, puttana a buon mercato. E decide se ne vale la pena.
Uh, che differenza.
Tre neri poco lontano si stanno rollando una canna e si accorgono che li osservo.
“Problemi?”, fa uno di loro fermandosi.
Faccio segno di no ed alzo la bottiglia.
“Mi fate fare un tiro?”
Sorridono e si siedono attorno a me. Sotto il ponte, il nostro campeggio.
“Come ti chiami?”, il più basso tira giù una sorsata. Non sembra un professionista.
“xxxxx”, mi passano la canna. “Voi?”
Sparano tre nomi che dimentico un secondo dopo.
“Non sembri uno di qui”, sorridono. Non mi prendono per il culo.
Probabilmente.
“Nemmeno voi”. Mi guardo attorno. Il fumo è scadente ma cattivo.
“Cazzo ci facciamo qui?”, chiedo.
Un suono di clacson e un’inchiodata. Un finestrino si abbassa:
“Figlio di puttana! E’ verde!”. Il guidatore è ubriaco. Posso sentire il suo alito a dieci metri di distanza.
Il tipo davanti scende da una Clio nera. Ha una pistola giocattolo in mano.
Cristo, si vede lontano un miglio che è finta. Ha grattato il cerchietto rosso sulla punta della canna ma…
“Quello ora gli spacca il culo”, dice il mio nuovo amico passandomi la bottiglia.
Infatti vengono alle mani.
Noi li osserviamo. Bevendo e fumando.
Non commentiamo, non facciamo il tifo per nessuno. Alla fine uno resta a terra con uno squarcio sulla testa e l’altro parte in auto sgommando.
Questo buco di culo di mondo viene illuminato dieci minuti dopo dalle luci dell’ambulanza.
Arriva anche un’auto della polizia.
“Avete visto nulla?”
Una Clio nera, penso.
“Niente”, rispondo.
Se ne vanno tutti lasciandoci al nostro marciapiede, al nostro lampione, alla nostra bottiglia quasi vuota e alla seconda canna.
“C’è una guerra là fuori, ragazzi”, dico.
Uno di loro si alza e piscia sul muro. Gli altri gli dicono qualcosa che non capisco e lui, ridendo, si allontana.
“Parli bene l’italiano per essere un italiano”, mi dice quello con i baffi scatenando l’ilarità generale.
Rido anch’io. Senza motivo.
Non so neanche più dove possa essere casa mia. Eppure mi alzo e mi appoggio al muro.
“Andiamo via da qui.”
Mi guardano tutti, anche quello che si sta tirando su la zip dei jeans.
“E dove abiti?”
“Dovunque tranne che qui”, riesco a dire prima di vomitare qualsiasi cosa ingerita nelle ultimi due giorni.
Due ore dopo ci ritroviamo tutti e quattro su una macchina.
Sfreccia a 160 all’ora su una strada di campagna diretta verso casa.
E si, cazzo, è una merdosa Clio nera.
A. Rebatto