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La guerriglia nel Donbass: le origini del conflitto in Ucraina

La guerra in Ucraina costituisce l’approdo di una spirale di sopraffazione e violenza sviluppatasi negli anni nelle province nord-orientali del paese, Crimea e soprattutto nel Donbass, almeno a far data dal 2014. Ecco le origini del conflitto

Tutto iniziò nel Donbss. L’opinione pubblica mondiale è angosciata dall’offensiva dell’Armata Rossa in Ucraina, iniziata nell’ultima settimana dello scorso febbraio. Tuttavia, a ben vedere, più che di un evento inaspettato e sconvolgente, si dovrebbe parlare dell’ escalation, senza nemmeno un sostanziale salto di qualità, di una contrapposizione interna all’Ucraina sfociata ben presto in un braccio di ferro militare per l’interferenza esterna della Russia e la corrispondente reazione americana e occidentale. Entrambi i fronti sono interessati ad attrarre l’Ucraina nella loro orbita politico-economica.

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La crisi di Crimea

Tutto nasce alla fine del 2013, con la deposizione del Presidente ucraino allora in carica, Viktor Janukovyč, filorusso e contrario all’Accordo di Associazione tra l’Ucraina e l’Unione Europea, allora in in fase di definizione. La caduta di Janukovyč fu determinata da una grande sollevazione di piazza filoeuropeista, conosciuta come Euromaidan.

Vi furono violenti scontri tra polizia e manifestanti, con centinaia di morti tra i civili nella capitale, Kiev. Janukovyč fu accusato dai suoi avversari di aver usato metodi brutali (fuoco di cecchini esperti sulla folla), in cui venne ravvisato, un sostegno, senz’altro probabile pur in assenza di prove certe, da parte dei servizi segreti russi.

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Janukovyč  rovesciò le accuse sostenendo che erano stati i rivoltosi a provocare la carneficina per far ricadere la colpa sulla polizia.
Questa turbolenta fase di instabilità interna si protrasse per i primi mesi del 2014, sino alla fuga in Russia di Janukovyč e la salita al potere, in sua sostituzione, con procedure straordinarie di dubbia legalità costituzionale, di un governo provvisorio che doveva indire e gestire nuove elezioni, che si tennero alla fine di maggio.

Il  governo temporaneo, presieduto da Arsenij Jacenjuk, fu riconosciuto dagli Stati Uniti e dalla Comunità Europea, ma venne considerato non legittimo dalla Russia.

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In questo delicato periodo di assestamento delle  istituzioni ucraine, si verificò una “contro-rivoluzione” in Crimea, importante regione sul Mar Nero ai confini con la Russia, abitata in larga prevalenza da popolazioni russofone simpatizzanti per la leadership di Putin.

La Crimea, storicamente un distretto della Grande Russia, era stata attribuita all’Ucraina in una redistribuzione territoriale all’interno dell’impero comunista. Rimasta sotto il controllo di Kiev dopo la dichiarazione di indipendenza ucraina nel 1991, non ha mai distaccato il cordone ombelicale da Mosca.

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A dare una spinta decisiva alla rivolta secessionista della Crimea fu un disegno di legge approvato a larga maggioranza dal Parlamento Ucraino, provocatorio nel contesto di quel periodo, che proclamava l’ucraino come lingua nazionale ufficiale, togliendo ogni riconoscimento  alla lingua russa, predominante in Crimea.

L’intervento del presidente ucraino Oleksandr Turčynov  impedì alla proposta di proseguire l’iter di attuazione, ma non spense le proteste e il risentimento anticentralista in Crimea.

Alla fine del febbraio 2014, approfittando della situazione statale precaria, con difficoltà a gestire l’ordine pubblico, in particolare nelle regioni periferiche, in Crimea si realizzò, con il concorso della popolazione e delle istituzioni locali, nell’impotenza delle autorità centrali, una secessione illegale ma nella sostanza incruenta.

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L’appoggio politico e il sostegno materiale e finanziario all’operazione da parte della Russia è scontato, ma ci fu anche un intervento militare diretto da parte di Mosca, con invasione dissimulata del territorio sovrano ucraino da parte di truppe con divisa anonima (soprannominati “omini verdi” o “persone gentili”, in quanto pur armati si comportavano pacificamente nei confronti dei civili) che danno una cospicua mano al movimento secessionista crimeano nel prendere il controllo della regione.

Putin ha sempre sostenuto che quei “patrioti” non appartenevano all’esercito russo, ma oggi ci sono chiare prove del contrario.

Dopo che gli anticentralisti filo russi si furono impadroniti di tutti i gangli strategici, istituzionali e civili, si arrivò a metà di marzo al referendum per l’indipendenza della Crimea, vinto con maggioranza “bulgara” dagli autonomisti. Stati Uniti e Comunità Europea lo condannarono come illegale, ed anche le Nazioni Unite, sia pure con dichiarazione non vincolante, ne disconobbero la validità.

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Seguì la dichiarazione di indipendenza, e contestuale richiesta di adesione alla Federazione Russa, da parte del parlamento crimeano. Putin rispose in maniera positiva, accogliendo la Crimea come uno dei “circondari federali” russi.

Il governo di Kiev continua a considerare la Crimea proprio territorio temporaneamente occupato.
Stati Uniti e UE hanno reagito con severe sanzioni economiche nei confronti della Russia che hanno provocato una grave crisi del rublo nel 2014 ma anche ripercussioni al commercio internazionale.

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La guerra “civile” del Donbass

Il successo dei moti autonomisti in Crimea incoraggiò, nello stesso anno, l’inizio di una analoga rivolta nelle provincie di Donec’k e Luhans’s, nella regione del bacino del Donec, il Donbass, sede di un importante bacino carbonifero.

Questa volta, tuttavia, il nuovo governo centrale ucraino, più saldo e  preparato dai fatti di Crimea , non si lasciò cogliere di sorpresa, reagendo vigorosamente al tentativo di secessione. Prese avvio un confronto militare feroce, senza esclusione di colpi e vicende alterne, che formalmente è una guerra civile tra “euromaindanisti” e “filorussi” ma in realtà ha comportato la discesa in campo anche diretta della Russia, in maniera addirittura più esplicita di quanto avvenuto in Crimea, e un intenso sostegno alle forze del governo di Kiev, non solo finanziario ma anche con forniture di armamenti, da parte americana.

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La regione del Donbass si è trasformata in un crogiuolo bellico in cui a fianco di entrambe le forze combattenti confluiscono volontari della più disparata provenienza e matrice da ogni parte del mondo, compresa l’Italia.

Nelle file del contingente governativo compaiono addirittura formazioni militari di esplicita matrice nazista, come il “battaglione Azov”, e non mancano, a rimpolpare lo schieramento avverso, nostalgici dell’Unione Sovietica comunista.

Di fatto, nel Donbass da otto anni è in atto una guerra che si differenzia da quella scoppiata con l’invasione russa di questo fine febbraio sostanzialmente solo per le dimensioni geografiche.

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Attualmente la Russia ha rotto gli indugi partecipando al conflitto in modo diretto ed esplicito col proprio esercito, ma non si può certo dire che non l’abbia già fatto in più occasioni nella regione del Donbass dal 2014 fino ad oggi, violando la sovranità ucraina per prestare il proprio sostegno  alle popolazioni russofone indipendentiste ingiustamente perseguitate – a suo giudizio – dal governo centrale ucraino.

Il motivo dichiarato dell’offensiva generalizzata russa di febbraio è peraltro lo stesso.
E’ anche evidente che il governo ucraino ha potuto portare avanti questo duro e dispendioso conflitto avendo alle spalle il sostegno in denaro e mezzi militari da parte degli Stati Uniti. Gli USA per evitare una catastrofica crisi internazionale non si sono mai spinti sino un intervento diretto sul campo, del resto innecessario visto che l’apporto umano alla guerra viene fornito dalle forze armate al comando del governo  di quel paese.

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Di seguito, un riassunto delle fasi principali della “guerra civile del Donbass”.

  • Agli inizi del marzo 2014 a Donec’k, capitale dell’omonimo Oblast (equivalente delle nostre regioni), scoppiano le prime proteste pro russe con tentativi di prendere il controllo dell’amministrazione statale regionale. Il tutto culmina agli inizi di aprile con un’assalto al palazzo governativo, riuscito solo in parte. I rivoltosi – evidentemente foraggiati da Mosca – pretendono l’indizione di un referendum sul modello di quello tenutosi in Crimea. Poiché la richiesta rimane inascoltata da parte dell’assemblea legislativa regionale,  gli insorti proclamano unilateralmente la Repubblica Popolare di Doneck.
  • Nello stesso periodo nell’Oblast di Lugansk avvengono analoghe azioni di rivolta -anche queste non risolutive come quelle di Donec’k per la resistenza delle istituzioni statali locali – che portano alla proclamazione della Repubblica Popolare di Lugansk.
  • Nel frattempo, ha già preso corpo la reazione da parte del governo di Kiev che lancia un’immediata “operazione antiterrorismo” contro i separatisti. Ne fanno parte forze congiunte della guardia nazionale di polizia  e dell’esercito ucraino, affiancate da formazioni paramilitari composte da volontari provenienti da partiti e movimenti di estrema destra.
  • La controffensiva governativa riesce a spegnere sul nascere i moti di rivolta che si verificano nell’Oblast di Charkiv,  la cui proclamazione di indipendenza non si verificherà mai.
  • Più contrastato il braccio di ferro militare tra forze governative e separatisti per il controllo delle due neonate “Repubbliche Popolari”. I rivoltosi in un primo momento ottengono numerosi successi che li portano a estendere il dominio a parecchie città e consistenti parti del territorio dei rispettivi (ex) Oblast. La battaglia tuttavia infuria con numerosi episodi di crudeltà  – tristemente tipici di tutti i conflitti intestini – il cui culmine è la “strage di Odessa” in cui 48 simpatizzanti separatisti perdono la vita nell’incendio di una sede sindacale a seguito dell’attacco di un’organizzazione paramilitare di estrema destra filocentralista ed antirussa.
  • Durante l’estate il contrattacco delle forze ucraine sembra avviato verso un pieno successo, con la progressiva riconquista di molte decisive posizioni nei territori del Donbass;
  • A questo punto si verifica un salto di qualità nel conflitto. Le forze separatiste, sino ad allora combattive ma disorganizzate, assumono la forma di un esercito regolare fruendo del sempre  più continuo e massiccio apporto di Mosca, in armi e aiuti di volontari, che possono facilmente raggiungere il Donbass attraverso la frontiera con la Russia. Ogni tentativo di avvicinarsi al confine per contrastare questo flusso riappropriandosi del territorio frontaliero, scatena un distruttivo cannoneggiamento da parte dell’artiglieria russa;
  • All’inizio di agosto le offensive sferrate dall’esercito ucraino per dare il colpo finale ai separatisti faticano a vincere l’aumentata capacità di resistenza delle formazioni avversarie, rinforzate e organizzate. A supportarle intervengono anche milizie di Spetsnaz, reparti speciali dell’esercito russo. Tuttavia, il contingente autonomista è costretto a ritirarsi, logorato in un modo che sembra oramai decisivo.
  • Alla fine di agosto, per frenare la vittoriosa avanzata delle forze ucraine, si verifica un intervento diretto russo, riconosciuto dagli osservatori ancorché negato da Mosca. Numerosi battaglioni meccanizzati e corazzati russi, potentemente supportati dall’artiglieria, lanciano una vigorosa controffensiva che controbilancia le sorti del conflitto e sembra anzi ribaltarle.
  •  Il pericoloso, aumentato livello dello scontro produce finalmente, nel settembre del 2014 un’iniziativa diplomatica, che porta al primo accordo di Minsk. Punti qualificanti del trattato sono il cessate il fuoco, la dismissione da ambo le parti di armi pesanti e il riconoscimento di una forma di autonomia qualificata alle due repubbliche ribelli. La tregua non regge per violazione degli accordi da parte di entrambe le parti.
  • Nel febbraio del 2015 interviene il secondo accordo Minsk, di contenuto analogo al precedente per la parte militare, con più stringenti impegni per garantire alle repubbliche ribelli un’effettiva autonomia senza intaccare l’unità dello stato ucraino.
  • Dal 2015 sino ad oggi la situazione nel Donbass si è mantenuta in equilibrio precario, con accuse reciproche di non attenersi al compromesso di Minsk.

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Rino Casazza

Rino Casazza è nato a Sarzana, in provincia di La Spezia, nel 1958. Dopo la laurea in Giurisprudenza a Pisa, si è trasferito in Lombardia. Attualmente risiede a Bergamo e lavora al Teatro alla Scala Di Milano. Ha pubblicato un numero imprecisabile di racconti e 15 romanzi che svariano in tutti i filoni della narrativa di genere, tra cui diversi apocrifi in cui rivivono come protagonisti, in coppia, alcuni dei grandi detective della letteratura poliziesca. Il più recente è "Sherlock Holmes tra ladri e reverendi", uscito in edicola nella collana “I gialli di Crimen” e in ebook per Algama. In collaborazione con Daniele Cambiaso, ha pubblicato Nora una donna, Eclissi edizioni, 2015, La logica del burattinaio, Edizioni della Goccia, 2016, L’angelo di Caporetto, 2017, uscito in allegato al Giornale nella collana "Romanzi storici", e il libro per ragazzi Lara e il diario nascosto, Fratelli Frilli, 2018. Nel settembre 2021, è uscito "Apparizioni pericolose", edizioni Golem. In collaborazione con Fiorella Borin ha pubblicato tre racconti tra il noir e il giallo: Onore al Dio Sobek, Algama 2020, Il cuore della dark lady, 2020, e lo Smembratore dell'Adda, 2021, entrambi per Delos Digital Ne Il serial killer sbagliato, Algama, 2020 ha riproposto, con una soluzione alternativa a quella storica, il caso del "Mostro di Sarzana, mentre nel fantathriller Al tempo del Mostro, Algama 2020, ha raccontato quello del "Mostro di Firenze". A novembre 2020, è uscito, per Algama, il thriller Quelle notti sadiche.

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