Eutanasia, cannabis, responsabilità civile dei magistrati: i referendum bocciati. Ecco cosa non ci convince…
Era l’11 gennaio 1995. La Consulta aveva appena bocciato sette referendum radicali. Marco Pannella irruppe in sala stampa a Montecitorio e la sparò grossa: «La Corte Costituzionale si è mossa come una grande cupola di mafiosità partitocratica ha agito come un gruppo di fuoco per cercare di salvare il regime e le sue peggiori nequizie. Il sistema così com’è adesso si protrarrà per altri vent’anni».
Chissà come avrebbe reagito oggi alla bocciatura dei referendum su eutanasia, cannabis e responsabilità civile dei magistrati. Soprattutto alla luce delle frasi del presidente della Consulta, Giuliano Amato, secondo cui i quesiti erano scritti male.
Quello sull’eutanasia, a suo giudizio, avrebbe infatti legittimato «l’omicidio del consenziente ben al di là dei casi per i quali ci si aspetta che l’eutanasia possa aver luogo». Quello per depenalizzare la coltivazione della cannabis, così com’era, avrebbe compreso anche le droghe pesanti. Quanto a quello sulla giustizia «essendo fondamentalmente sempre stata la regola per i magistrati quella della responsabilità indiretta, la introduzione della responsabilità diretta rende il referendum più che abrogativo».
Siamo rimasti sorpresi. Primo perché, come fa notare uno dei promotori, il radicale Marco Cappato, i titoli dei quesiti non li hanno decisi loro, ma la Cassazione. Secondo, per la nostra esperienza su mezzo secolo di referendum. Perché non è mica vero che appena passa un referendum ci si trovi improvvisamente “scoperti” e nel pieno Far West. Il referendum sulla privatizzazione della Rai, ad esempio, fu vinto a larga maggioranza. Ma non l’hanno mai privatizzata.
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E c’è un esempio ancora più calzante, il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati del 1987 (sì, ce ne fu già uno) che i radicali vinsero a mani basse ottenendo l’abrogazione dal codice degli articoli 55, 56 e 74 c.p.c., i quali prevedevano che i magistrati potessero essere chiamati a rispondere delle loro azioni solo in caso di dolo, frode e concussione e previa autorizzazione del ministro della giustizia.
Tuttavia, non è che il giorno dopo la vittoria referendaria piovvero migliaia cause sulle toghe: si attese una legge, la 117/88, che regolamentasse il vuoto legislativo. Nei fatti, tuttavia, nulla cambiò, come, numeri alla mano, nulla è cambiato con la riforma del 2015, nonostante le richieste pervenute all’Italia dall’Unione Europea: in soldoni, se un cittadino finisce nel tritacarne della giustizia per un clamoroso errore giudiziario sono fatti suoi. Al massimo spunterà un risarcimento dalle casse pubbliche.
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Quindi, se fossero passati i tre quesiti bocciati e avessero poi vinto, ci saremmo aspettati comunque una regolamentazione e non il Far West. Ma ancor prima, come ha spiegato Cappato ad Accordi&Disaccordi «noi ovviamente avremmo spiegato che l’unico omicidio del consenziente che in realtà si sarebbe legalizzato sarebbe stato nel contesto eutanasico, perché in tutti gli altri contesti il consenso non sarebbe stato accertabile. L’esempio che il presidente della Corte Costituzionale Amato ha fatto nella conferenza stampa ufficiale era un esempio fasullo, perché lui ha parlato di una persona che ha un po’ bevuto e che si fa ammazzare. In realtà noi non cancellavamo col referendum la seconda parte dell’articolo, che prevede di punire come omicidio volontario addirittura, 21 anni di carcere, l’omicidio di una persona anche se consenziente che sia sotto l’effetto di sostanze alcoliche».
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E così vale per gli altri due referedum eliminati dalla Consulta. Ma tant’è. Ne sono passati altri, tutti sulla giustizia. Quello sull’incandidabilità dei condannati introdotta dalla legge Severino (la norma, per intenderci, che fece decadere Silvio Berlusconi), quello che consentirebbe anche agli avvocati dei consigli giudiziari di valutare la professionalità dei magistrati e quello che prevede la cancellazione della norma secondo la quale i candidati al Csm debbano essere sostenuti dalla presentazione di 25 persone.
L’intento? Porre un freno alle correnti in magistratura e favorire le candidature individuali. Certo, non sono questi gli argomenti che appassionano la maggioranza degli italiani. Ma gli ultimi due quesiti dovrebbero invece interessare chiunque di noi.
Uno è inerente la limitazione della custodia cautelare, che non potrebbe più essere giustificata con il pericolo di reiterazione del reato (tranne per fatti violenti): il segretario del Pd Enrico Letta si è già schierato per il No, con buona pace dei detenuti in attesa di giudizio.
L’ultimo referendum vorrebbe infine la separazione delle carriere tra giudici e pm, una riforma che stava già andando in porto nel luglio del 2007 ma che fu scongiurata in extremis dal ministro Clemente Mastella dopo un annunciato sciopero delle toghe. Eppure, per fare un esempio sportivo, dovrebbe essere evidente ad ognuno: se un cittadino finisce in tribunale oggi si trova di fronte una parte (il pm) e un arbitro (il giudice) che militano nella stessa squadra (la magistratura) e sono giudicati dallo stesso organo (il Csm) che ne decide le rispettive carriere.
Pm e giudici dovrebbero stare su binari paralleli, così come lo sono da una parte avvocati e giudici e dall’altra avvocati e pm. Altrimenti il cittadino potrà sempre avere l’impressione di non essere stato giudicato in modo imparziale. La separazione delle carriere, dunque, costituirebbe davvero una riforma rivoluzionaria e democratica. Proprio per tale ragione siamo certi di ciò che accadrà: se anche dovessero vincere i Sì al referendum, nel migliore dei casi non cambierà nulla.