Ci sono casi in cronaca in cui la controanalisi ha smentito l’esito del test del dna, delitti compresi. Una controanalisi che però non fu concessa a Massimo Bossetti, condannato per il delitto di Yara Gambirasio. Ecco i clamorosi errori documentati…
In un mio precedente post ho affrontato il problema dei rischi di errore giudiziario insiti nella cosiddetta prova del DNA.
In quell’intervento mi sono soffermato in particolare sui casi in cui l’individuazione di un profilo genetico, sul corpo della vittima o comunque su una scena criminis, è stata effettuata correttamente, ma esso poi non è risultato appartenere all’assassino.
Nella storia giudiziaria italiana ciò si è verificato, per esempio, nel processo a Raniero Busco, fidanzato di Simonetta Cesaroni, vittima del famoso delitto di via Poma, ed anche in quello a Raffaele Sollecito e Amanda Knox (SPECIALE), accusati di aver ucciso l’amica Meredith Kercher.
Tuttavia, come ho avuto modo di chiarire in un’intervista a Claudio Salvagni, avvocato di Massimo Bossetti, la difesa del muratore bergamasco punta , per ottenere una revisione della condanna, non tanto sul fatto che l’impronta di DNA del loro assistito è presente sugli indumenti della povera Yara Gambirasio pur non essendo lui il colpevole, bensì sulla convinzione che il profilo genetico di “ignoto 1“, estrapolato dagli esperti incaricati dall’accusa e poi confrontato con quello di Bossetti, è sbagliato.
L’intervista esclusiva su Fronte del Blog all’avvocato Claudio Salvagni:
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Per poterlo dimostrare, la difesa chiede una ripetizione dell’esame in contraddittorio, ovvero quella che si definisce una controanalisi. Finora – lo rammento – questa possibilità non è stata mai concessa, con motivazioni che lasciano molti dubbi soprattutto perché dovrebbe trattarsi di un diritto fondamentale dell’imputato.
Viene spontaneo chiedersi, a conferma che una verifica degli esami del DNA, laddove in un processo rappresentino prove a carico decisive, è essenziale, se ci sono precedenti giudiziari in cui un esame del DNA, utilizzato per attribuire a una persona una traccia genetica, si è poi, a seguito di una controanalisi, rivelato fallace.
La risposta è sì. Abbiamo trovato due casi molto significativi.
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1. Il “biondino” sbagliato
Nell’agosto nel 2002 (vedi, tra gli altri, questo articolo) la giovane Annalisa Vicentini rimane uccisa da un colpo di pistola in una pineta di Castiglioncello, in provincia di Livorno. Il fatto accade mentre si era appartata in automobile, con un amico o un amante poco importa. Un malvivente aveva cercato di rapinare i due ma, a seguito di una collutazione tra l’uomo e l’aggressore, era partito il colpo fatale. L’omicida era poi riuscito a dileguarsi.
Il sopravvissuto riesce a fornire una sommaria descrizione del rapinatore, indicato come un giovane biondo col codino.
Da alcune gocce di sangue rimaste sul calcio della pistola e alcuni oggetti persi dall’assalitore sulla scena criminis, gli esperti genetisti del RIS di Parma, incaricati dagli inquirenti, ricavano un profilo genetico, che viene prontamente segnalato alle polizie di tutta Europa.
Dopo poco tempo giunge una risposta da Scotland Yard: in un loro data base è registrato un pregiudicato con lo stesso DNA, tale Neil Hankin, un barista di Liverpool precedentemente condannato per guida in stato di ebrezza.
Benché di costui non si rinvengano, al tempo del delitto, tracce di un soggiorno in Italia né tantomeno nella provincia di Livorno, l’evidenza genetica lo inchioda.
Peccato che Hankin – professatosi a gran voce innocente nonostante sia stato arrestato e abbia ottenuto la libertà solo su cauzione – faccia ricorso alla giustizia inglese, ottenendo di poter effettuare una “controanalisi”.
A seguito di questa, è la stessa Scotland Yard ad ammettere di aver commesso un errore. Il confronto genetico non era stato accurato, limitandosi a verificare la corrispondenza di un numero non sufficientemente ampio di componenti di due DNA. Allargato il campo della verifica, risultava chiaro che quella traccia non poteva appartenere ad Hankin.
In seguito, attraverso indagini ordinarie, gli inquirenti sono riusciti ad arrivare ad un soggetto, Andrei Orul, di origini slave, notato nei pressi della pineta dell’omicidio in un momento sospetto. Il confronto, questa volta accurato, tra il DNA di costui e quello rinvenuto sul luogo del crimine ha confermato la sua colpevolezza.
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2. Il figlio mancato
Il caso, di cui si parla in questo articolo, non riguarda la giustizia penale, ma quella civile, per la precisione una procedura per il riconoscimento della paternità.
Nel 2000 un uomo aveva chiesto all’ospedale Sant’Anna di Como di verificare, attraverso esame del DNA, la propria paternità biologica di un bambino nato quell’anno. La risposta era stata categorica: i due erano padre e figlio al 99,9%
Passano tre anni e il padre, che fino ad allora aveva esercitato il ruolo paterno in modo irreprensibile, evidentemente colto da dubbi, chiede e ottiene una controanalisi. L’esito, sorprendentemente, è contrario a quello del 2000. Vani i ricorsi della madre: anche successive analisi hanno certificato che non esiste parentela tra il bambino e il presunto padre. L’errore commesso nel primo test è dipeso dall’uso di kit inappropriati e dal mancato rispetto delle best practices previste per questo tipo di analisi.
Val la pena di notare che, nel caso Bossetti, e rinviamo ancora all’intervista resa dall’avvocato Salvagni, la difesa ha lamentato sia l’incompletezza del DNA di “ignoto 1” sia numerose violazioni dei protocolli di trattamento del campione analizzato.
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