L’inchiesta internazionale, il killer che si protestava innocente, il racconto di una trans brasiliana, le accuse del fratellastro di Patrizia Reggiani, il testimone risarcito dopo venticinque anni: che fine hanno fatti i protagonisti del caso Gucci, diventato un film di Ridley Scott – LO SPECIALE DI FRONTE DEL BLOG
House of Gucci, il film di Ridley Scott, imperversa nelle sale cinematografiche con un cast stellare: Adam Driver, Al Pacino, Jeremy Irons e Salma Hayek e Lady Gaga nei panni di Patrizia Reggiani-Lady Gucci. Per alcuni è un capolavoro, per altri inguardabile. Non ci sono vie di mezzo.
Il film è ispirato al libro di Sara Gay Forden, ma quest’ultimo è carico di citazioni de L’ultimo dei Gucci, il volume più completo sulla vicenda, scritto da Maurizio Tortorella e Angelo Pergolini (da poco scomparso) e appena uscito nella nuova edizione Rizzoli con quanto accaduto dall’uscita dal carcere di Patrizia Reggiani: «Con una cinquantina di interviste ad amici della vittima – dice Tortorella – magistrati, poliziotti, medici, avvocati. L’unica perplessità che rimane sul caso è se davvero all’epoca Patrizia Reggiani fosse capace di intendere e di volere per via del neuroblastoma al cervello».
E ricorda: «La svolta nelle indagini ci fu quando l’ospite di un hotel ad una stella, Giovanni Carpanese, fece il nome del portiere dell’albergo, Ivano Savioni, parente dell’Auriemma, come organizzatore del delitto. Una svolta inaspettata in un momento in cui sembrava di essere al centro di un intrigo internazionale». Ecco, va bene il film, ma della vera storia sapete davvero tutto? Se non conoscete proprio ogni dettaglio, mettetevi comodi e leggete…
Cronaca vera di un delitto
Siamo in via Palestro, a Milano. Maurizio Gucci ha 47 anni ed è l’erede della celeberrima casa di moda famiglia fondata dal nonno Guccio Gucci. È stato sposato per dodici anni, dal 1973 al 1985 con Patrizia Reggiani, da cui ha avuto due figlie, Allegra e Alessandra. Poi si è rifatto una vita con un’altra donna, Paola Franchi. Dal 1993 ha venduto agli arabi il 50% delle sue quote dell’impero per una cifra, si dice, pari a circa 170 milioni di dollari. Imprenditore di successo, le cronache lo definiscono «l’uomo da 800 miliardi».
La mattina del 27 marzo 1995 è uscito di casa e sta salendo sulle scale dell’immobile della sua società. Alle spalle arriva un uomo a volto scoperto con cappellino da baseball. Gli spara, poi colpisce il portiere dello stabile Giuseppe Onorato ad un braccio. E fugge sull’auto guidata da un complice. La notizia fa il giro del mondo. E diventa subito un giallo dai risvolti internazionali. Le indagini, guidate dal pm Carlo Nocerino, guardano in ogni direzione: finanza, affari, questioni ereditarie e societarie.
A Parigi viene sentito Delfo Zorzi, l’ex di Ordine Nuovo che vive in Giappone, titolare di un’azienda di import-export per la moda. Ma non si va a parare da nessuna parte. Anche sui giornali si favoleggia l’esistenza di piste straniere e la mano di un killer professionista: avrebbe usato una pistola con silenziatore incorporato con proiettili calibro 32 venduti solo in Svizzera, Francia, Austria e Germania. È da lì che arriva il sicario? Il raggio d’azione per trovare i colpevoli sembra immenso.
Senonchè i colpevoli non sono esattamente dei geni del crimine. Ce n’è uno che fa il portiere d’albergo e che ha il vizio di chiacchierare. Si chiama Ivano Savioni e spiffera alcuni dettagli ad un tizio, certo Giovanni Carpanese. Il quale, immediatamente informa la Criminalpol. È da lì che partono le indagini decisive, quando, a parlare con Savioni, arriva un infiltrato della polizia che si fa passare per un trafficante di droga con il nome di Carlos.
Lentamente, attraverso intercettazioni e microspie, la vicenda viene così a galla. Il colpo di scena è clamoroso e arriva quasi due anni dopo la tragedia. Il 31 gennaio ’97 viene infatti arrestata l’ex moglie di Gucci, Patrizia Reggiani, come mandante del delitto: avrebbe pagato 600 milioni per l’omicidio, spinta dalla gelosia e dall’odio per l’uomo che un tempo aveva amato.
Lei si difende sostenendo di avere sì affermato di volerlo morto, ma di non avere dato ordini per ucciderlo. E di aver successivamente pagato i killer che la ricattavano.
Già, i killer. Il pm Nocerino li definirà un “gruppetto di assassini”. L’uomo che guidò l’auto per fuggire confessa: si chiama Orazio Cicala. Dice che l’assassino era un balordo. Ma non quello che viene indicato dagli inquirenti e successivamente condannato, il siciliano Benedetto Ceraulo, che si proclama innocente.
Ad intermediare con il gruppo è stata una cartomante napoletana, Pina Auriemma, che la Reggiani aveva avuto modo di conoscere.
Patrizia in carcere
Patrizia parla per la prima volta da una cella di San Vittore con il settimanale Visto: «Agli inizi il carcere mi è sembrata una delle tante esperienze della mia vita, un’avventura, una nuova sfida con cui misurarmi. Ho detto a me stessa che dovevo mettermi alla prova. Ora invece penso solo alla libertà, alla vita fuori di qui». Le sue parole sono raccolte da Alessandro Meluzzi, psichiatra e senatore di Forza Italia.
Lei gli confida le sue giornate così diverse dal consueto, in attesa del processo che la vuole mandante proprio del delitto dell’ex marito. E descrive quel mondo di San Vittore, popolato da detenute accusate di spaccio e reati di droga, che sono così lontane dal jet set che ha sempre frequentato: «Oggi pomeriggio faccio due ore d’aria in giardino. Alla mattina invece dormo e rinuncio al permesso di un’ora».
Si alza tardi per via delle pastiglie che prende per dormire e contro la depressione. «Non sto più leggendo né libri, né giornali, non riesco a concentrarmi. Guardo poco anche la televisione perché non mi interessa. Per fortuna ci sono le mie compagne di cella, sono molto gentili e con loro vado d’accordo. Sono loro a preoccuparsi di cucinare perché se fosse per me, mangerei solo roba pronta». In mente le circola un solo pensiero: «Libertà. Non penso che a quello. Mi mancano soprattutto le mie figlie, i miei affetti, la mia casa».
I periti della difesa sostengono che il tumore al cervello che le hanno asportato nel 1992 le abbia compromesso la lucidità mentale e che le sue condizioni siano incompatibili con il carcere. «Non sto bene, mi tormenta un continuo formicolio al braccio e alla gamba destra. Questo fastidio mi impedisce di muovermi bene e mi crea problemi anche quando sono sdraiata».
Il fratellastro
L’inviata di Visto Cristina Rogledi vola intanto ai Caraibi per incontrare il fratellastro della signora Gucci, Enzo, che in pochi conoscono e che cova un antico rancore verso Patrizia e pure verso la madre di lei, Silvana Barbieri, la donna che ha sposato in seconde nozze Ferdinando Reggiani, padre adottivo di Patrizia, ma anche di Enzo. Il quale, infatti, di cognome originario fa D’Amato.
«Anch’io, come Patrizia – racconta lui in un lungo memoriale pubblicato dal settimanale – sono un figlio adottivo. La mia madre biologica nel ’45, quando suo marito partì per la guerra, scelse di darmi in adozione all’unico parente agiato che aveva, e cioè Ferdinando Reggiani, già allora conosciuto in Emilia per la sua azienda di trasporti».
Enzo narra anzitutto della sua infanzia tormentata: dopo la morte della madre adottiva Lina, nel 1956, il padre gli presentò Silvana Barbieri Martinelli che «mi disse, sarebbe diventata la mia istitutrice» ma che poi sposerà. E Silvana aveva una figlia, Patrizia «anche lei, come me, era piuttosto taciturna. Ci ignoravamo del tutto. Cresceva incensata e glorificata come la bambina più bella del reame. A 15 anni ricevette in dono la prima pelliccia di visone».
Con la signora Silvana lui proprio non andava d’accordo. Neppure andò al matrimonio di Patrizia con Maurizio. Tra Enzo e le due donne, tra l’altro, ci sono stati forti attriti ereditarie: l’uomo dice di essere convinto che il patrimonio del patrigno fosse di quaranta miliardi di lire e invece, quando morì «ce n’era un decimo». Ha provato anche a fare una causa contro Silvana e Patrizia, ma l’ha persa.
Visto è però ai Caraibi perché Enzo sostiene ora ben altro: ha appena presentato al pm Carlo Nocerino un esposto contro madre e figlia sospettando che le due abbiano voluto la morte del suo patrigno nel 1973, quando questi era malato terminale, e che il testamento fu in qualche maniera forzato. Una tesi da film, tanto che anche Silvana Barbieri decide di difendersi dalle colonne del settimanale, bollando le sue parole come «assurde».
Ma in tribunale, per le terribili accuse del figlio adottivo, non ci arriverà mai, dato che il magistrato chiederà e otterrà l’archiviazione delle denunce di Enzo nel luglio del 2000. Motivazione, come riporta il quotidiano Repubblica: è «scarsamente credibile» presentare un esposto «dopo 24 anni dai fatti, sull’onda delle notizie di cronaca riguardanti l’omicidio del noto imprenditore Maurizio Gucci.
Non può certo sfuggire l’antico rancore nutrito dal D’Amato nei confronti delle due donne che già ebbe un precedente processuale con la denuncia di falso e truffa presentata nel novembre del ‘74, poi archiviata con ordinanza di proscioglimento del giudice istruttore di Milano nel febbraio del ‘77».
“Non è lui il vero killer di Gucci”
Mentre inizia il processo in Corte d’Assise a Milano, succede altro. Perché, se Ceraulo si è protestato innocente, Cicala, lo abbiamo visto, dice che in effetti non è lui l’uomo che portò in auto in via Palestro. Presto accade così altro. Nello stesso periodo, infatti, una trans brasiliana, Josè Barbosa, 30 anni, in arte Rafaela, scrive a Cronaca Vera, sostenendo di aver paura per la propria vita.
Spiega di vivere da tre anni come schiava di uno sfruttatore: «All’inizio quando mi aveva difeso dalla violenza di altri papponi, pensavo che mi volesse bene, poi invece ho capito che ero finito proprio nelle mani di uno dei capi della prostituzione che in diverse occasioni ha cercato di uccidermi solo perché volevo sottrarmi alla schiavitù al quale mi aveva obbligato».
Tre mesi prima ha presentato un circostanziato esposto denuncia ai giudici di Milano. Narra del suo viaggio, dall’inizio. Da quando nel 1993 in Brasile conobbe un’ altra trans che la convinse a trasferirsi in Italia lasciandosi alle spalle la miseria delle favelas: «Con seimila dollari avrei potuto trasferirmi a Milano e trovare un lavoro onesto. Accettai e m’indebitai con questa persona e giunto in Italia, non trovando altro da fare cominciai a prostituirmi».
A Milano era stata subito presa in consegna da gente senza scrupoli ai quali pagava il pizzo per battere i marciapiedi attorno alla Stazione Centrale. Poi aveva trovato un amante, che si era rivelato però ancor peggio degli altri. Ed era scappata nell’appartamento di una collega, dove stava in segreto: «Chiedo di essere lasciata in pace, ma anche giustizia per gli altri come me, che continuano ad essere sfruttati da quest’uomo e che occupa un ruolo importante nell’organizzazione che ci sfrutta Io sono stata costretta a cambiare “piazza” per poter sopravvivere, sempre nascondendomi. Ma vivo con la paura che un giorno o l’altro lui e i suoi aguzzini mi ritrovino e mi facciano fare la fine toccata ad altri come me».
Che c’entra, si dirà, tutto questo con il caso Gucci? Il punto è che Rafaela, dopo aver raccontato la sua storia al settimanale, non si ferma. Prima lo accusa di essere uno spacciatore e organizzatore di festini negli ambienti dello spettacolo. Quindi, va oltre. E lo accusa di essere nientemeno che il vero assassino di Maurizio Gucci. Ha con sè anche una foto, che denota una certa somiglianza con Ceraulo, il muratore arrestato.
Ed espone i suoi dubbi anche ai magistrati della Procura della Repubblica di Milano: «Sono sicura che sia stato lui. Proprio in quei giorni era nervoso ed aveva recuperato una pistola identica a quella usata nell’omicidio. Era uno che viveva nel mondo delle televisioni e dello spettacolo, poteva essere facilmente contattato per commettere un atto tanto criminale e vi assicuro che era in grado di farlo…» Dice proprio così. Firma anche un memoriale.
Ma la sua versione, sul delitto, non trova riscontri. Rafaela, tempo dopo, approfittando della notorietà, organizza la rivolta delle lucciole a Milano, quando i ghisa decidono di appioppare multe da 300.000 lire ai clienti che incappano nella rete della polizia municipale.
I processi sul caso Gucci
Le indagini, dunque, si chiudono in questo modo. Il processo di primo grado dura un anno e mezzo. E finisce con una condanna generale: ergastolo a Benedetto Ceraulo, 29 anni di reclusione per Patrizia Reggiani e Orazio Cicala, 26 a Ivano Savioni e 25 a Pina Auriemma. In appello le pene vengono ridotte.
In particolar modo a Ceraulo, che continua e continuerà sempre a protestarsi innocente sostenendo di essere un “capro espiatorio”, viene tolto l’ergastolo ed è condannato a 28 anni e 11 mesi. Patrizia, cui la Cassazione conferma i 26 anni di prigione ridotti in appello, proverà a chiedere la revisione processuale per via dell’operazione ad un tumore al cervello che ne avrebbe compromesso le capacità di intendere e di volere. Ma l’esito sarà negativo. La condanna è definitiva. Le figlie Alessandra e Allegra le sono sempre state vicine. Almeno fino ad allora.
“Sì, sono stata io”
Nel 2010 Pina Auriemma esce di prigione. Quando, poco dopo, propongono a Patrizia di uscire in semilibertà per lavorare, lei rinuncia e risponde con una giustificazione che fa scalpore: «Io non ho mai lavorato nella mia vita, non inizierò certo adesso».
Così fa la stilista di borse in carcere a San Vittore, fa. Anche se Patrizia lo chiama Victor’s Residence, che fa più chic. Ci resta 17 anni. Ma solo una volta tornata libera, marzo 2021, ammette qualcosa parlando ad Andrea Galli del Corriere della Sera: «Non odiavo Maurizio. È stata stizza, la mia. Ho pagato quello che dovevo, avendo fatto uccidere il mio ex marito. Non di più, non di meno».
Intervistata da Discovery Channel, dice: «Ho un difetto, non ho una buona mira, quindi non potevo fare da sola. Ho trovato questa Banda Bassotti che ha compiuto il delitto». Nel frattempo i rapporti con le figlie, Alessandra e Alllegra, si sono interrotti a causa di una complicatissima disputa ereditaria tuttora aperta e lei non ha mai conosciuto i suoi nipotini.
Il testimone: “Ho visto uccidere Gucci”
Pina Auriemma era dentro con Patrizia, quasi come se fosse una sorella. A proposito del delitto, ha detto di provare rimorsi per l’accaduto, ma che all’epoca «L’unica ad aver preso sul serio Patrizia sono stata io». In prigione oggi non c’è più nessuno. Savioni ha scontato 20 anni, Ceraulo 28, Cicala 26. Quest’ultimo è deceduto. Ed è morto anche il portiere Giuseppe Onorato, ferito dal killer, poco dopo essere stato risarcito a 25 anni dai fatti con 100 mila euro.
Nel 2015, quando ancora non aveva visto un soldo poiché Patrizia risultava nullatenente, parlò del suo calvario a Cronaca Vera. La mattina del 27 marzo 1995 l’aveva stampata nella memoria come se tutto fosse accaduto il giorno prima: «Arriva il dottor Gucci. Lo saluto, è elegantissimo come sempre. Sale sette gradini fino alla porta a vetri, che avevo aperto per pulire. Dietro di lui entra un uomo, altrettanto elegante, abbronzato con un giaccone di cammello. Sembrava un altro dottor Gucci, insomma nulla che facesse presagire qualcosa… senonchè apre la giacca e io rammento perfettamente queste mani enormi da cui spunta solo il silenziatore di una pistola. Era davvero come un film, pensavo a uno scherzo, non c’era niente di vero. Invece spara quattro colpi, poi si gira, mi vede. Sgrana gli occhi, come se non se l’aspettasse, e spara anche a me. Io alzo un braccio istintivamente, sento qualcosa, poi mi siedo sui gradini. Pensavo, giuro, che a quel punto dovessi morire, proprio come in un film».
Invece i proiettili gli avevano bucato omero e ulma e lo operarono due volte mettendogli dentro due chiodi. Tornò al lavoro col terrore che i killer tornassero a finirlo, come testimone scomodo. «Perché, prima che venisse arrestata la signora Reggiani, sui giornali si parlava di complotti internazionali, di killer professionisti. E io temevo di non avere scampo. D’altra parte a 50 anni e rotti, non è che potessi trovare un nuovo lavoro. Sicchè passai quasi un anno da incubo, sbirciando fuori dal portone».
Non odiava la banda. Disse che era povera gente che lo aveva fatto per uno stato di bisogno, anche se non ebbe mai dubbi che il killer fosse Ceraulo, per via delle mani «delle manoni enormi, così grandi da inghiottire nei palmi la pistola».
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