E’ convinzione diffusa che, essendo il DNA di ogni individuo specifico, e differente da quello di qualsiasi altro, il ritrovamento di impronte genetiche di una persona su una scena criminis costituisca un prova sicura della sua colpevolezza. Invece…
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La condanna all’ergastolo di Massimo Bossetti per l’omicidio della giovane Yara Gambirasio poggia sulla corrispondenza tra il DNA del condannato e quello, commisto al DNA della vittima e ad un altro non identificato, rinvenuto sugli abiti della sfortunata ragazza. A tal riguardo, leggi qui la recente intervista concessaci dal legale di Bossetti, Claudio Salvagni. Tuttavia, il fenomeno conosciuto come “touch DNA“, ha prodotto già numerose sviste investigative e giudiziarie, tanto che, in molti ordinamenti penali stranieri, le impronte genetiche trovate in una scena criminis da “prova scientifica” di colpevolezza sono state declassate a indizio da verificare e confermare. Inoltre, la possibilità di errore nell’analizzare “DNA mescolati” sembra essere particolarmente elevata.
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Nella vita di tutti i giorni, senza rendercene conto, viviamo in mezzo alle tracce genetiche. La pelle umana, nell’entrare in contatto con oggetti, o parti del corpo di altre persone, rilascia infinitesimali quantità di Dna. Non è ancora ben chiaro se si tratta di minuscole “goccioline” di sudore prodotte dalle ghiandole sebacee oppure di cellule che si distaccano dallo strato più superficiale dell’epidermide.
Le tecniche di rilevazione del DNA negli ultimi decenni si sono enormemente raffinate, permettendo di estrarre profili genetici da tracce piccolissime, cosicché anche quelle di cui parliamo, denominate “touch DNA”, in italiano “DNA da contatto”, sono divenute oggetto delle analisi di polizia scientifica.
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Ci sono tuttavia alcuni seri problemi. Innanzitutto, l’estrema piccolezza di queste tracce, a volte composte solo da qualche cellula, non permette di determinare il tessuto di provenienza: sangue, saliva, sudore, liquidi sessuali o altro. Poi, le impronte genetiche permangono a lungo nel tempo.
Da questo discende che non è possibile stabilire esattamente:
- QUANDO siano state impresse (prima, durante o dopo il delitto);
- COME siano state impresse.
Il secondo aspetto è quello a prima vista più ostico a comprendersi. Verrebbe spontaneo, infatti, equiparare il “touch DNA” alle impronte digitali, impresse dalle dita della una mano quando toccano particolari superfici, e incontestabilmente indicative del fatto che colui a cui appartengono si trovava in un determinato luogo.
Non è così. Mentre un’impronta digitale non può essere trasferita da un luogo all’altro, il “touch DNA” sì. Attraverso un meccanismo semplice: se tocco un oggetto su cui qualcun altro ha rilasciato il suo “touch DNA”, questo può “appiccicarsi” alle mie dita ( non solo: anche ad altre parti del corpo e dei miei abiti); se poi io mi allontano e tocco (con le mani, altre parti del corpo o gli abiti) un oggetto in un luogo diverso, lo deposito lì. Qualora venisse fatta una ricerca del DNA risulterà che a frequentarlo siamo stati sia io che l’altro di cui ho trasportato il DNA, mentre quest’ultimo, in realtà, non ci ha mai messo piede.
Può sembrare che si tratti di un’ipotesi limite, assai difficile in concreto dal verificarsi, invece non è così.
C’è stato un caso, avvenuto nel 2014, di cui ho già parlato in questo post, in cui un uomo era destinato a finire sulla sedia elettrica perché sul luogo di un brutale omicidio avevano rinvenuto tracce del suo DNA. Per sua fortuna costui, un barbone alcolista, mentre l’omicidio veniva commesso era in stato di coma etilico in ospedale, cosicché si è dovuto ricercare un altro motivo, poi trovato, per la presenza, apparentemente inspiegabile, delle sue impronte genetiche sulla scena criminis.
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Esiste un caso, risalente al 1997, in cui il ritrovamento di un DNA sul cadavere della vittima di un omicidio ( precisamente sotto le unghie) ha dato vita a una vicenda che sembra tratta da un racconto dell’orrore soprannaturale : l’ omicida, graffiato dalla vittima prima di soccombere, risultava certamente morto quando lo aveva commesso. Il delitto di uno zombie, insomma. Non era così, ma si è dovuto faticare per comprendere cosa era successo realmente.
Molti conoscono il caso dell’uccisione di Meredith Kercher. L ‘italiano Raffaele Sollecito e la statunitense Amanda Knox, fidanzati ed amici della vittima, sono stati condannati due volte in secondo grado, prima dell’assoluzione definitiva in Cassazione, sulla base di alcune tracce genetiche, a loro attribuite, ritrovate (DNA di Amanda) sulla lama di un coltello riposto in un cassetto in casa di Raffaele, ritenuto l’arma del delitto , e (DNA di Salvatore) sul gancio del reggiseno della vittima.
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Dopo lunga diatriba, si è concluso che quelle due piccole tracce non erano affidabili al fine di dimostrare la colpevolezza dei due giovani imputati, per due ragioni.
- l’ impronta di Meredith sul coltello di Amanda poteva tranquillamente essere touch DNA dell’imputata, visto che, in quanto sua fidanzata, frequentava regolarmente la casa di Raffaele;
- l’impronta di Sollecito sul gancio del reggiseno di Meredith risultava essere stata prelevata e conservata dagli agenti intervenuti sulla scena del delitto con modalità che non rispettavano i protocolli di repertazione. Pertanto non c’era garanzia che non avesse subito alterazioni o addirittura , visto che non si sapeva esattamente dove, come e da chi l’oggetto era stato custodito prima di essere analizzato, una contaminazione indiretta.
Poiché è del tutto normale che oggetti e superfici siano toccati da più persone, spesso il “touch DNA” non viene rinvenuto isolato e distinto, ma mescolato ad altri DNA. Questa particolarità può riguardare non solo il “touch DNA”, ma il DNA in generale, una circostanza frequente nei delitti per aggressione, laddove DNA di origine “non touch” ( ad esempio sangue) appartenente al criminale può mescolarsi a fluidi corporei della vittima (ad esempio ancora sangue). La situazione tende oggi a complicarsi poiché le sofisticate metodologie di analisi sono in grado di rilevare pluricontaminazioni di DNA, touch e non touch, perfettamente possibili in natura.
Non si tratta di casi di scuola. Ciò si è verificato non solo nel caso dell’omicidio di Yara Gambirasio, su cui torneremo, ma anche, per esempio, in quello, ancor più famoso, di Simonetta Cesaroni, avvenuto nel 1990 in via Poma a Roma e ancora insoluto.
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Sul reggiseno e sul corpetto della sfortunata Simonetta, infatti, furono ritrovate -peraltro a distanza di quasi quindici anni dal fatto, con conseguenti problematiche di affidabilità del campione, in questo caso superate – impronte genetiche “touch” del fidanzato, Raniero Brusco, unitamente ad altre miste, appartenenti ad almeno altri due soggetti sconosciuti. Per un inquadramento complessivo del caso invitiamo a leggere il libro Via Poma, oltre la Cassazione, scritto in collaborazione da Paolo Cochi, Paolo Loria e Francesco Bruno.
Per venire al caso Bossetti/Gambirasio, l’avvocato difensore di Massimo Bossetti, Claudio Salvagni, in questa intervista ,ha spiegato che l’impronta genetica , ritrovata sui leggins e sull’elastico delle mutandine della vittima, – verosimilmente “touch”, essendo ignota la provenienza tessutale- e costata l’ergastolo al suo difeso in quanto considerata sua, era mescolata al DNA della vittima e ad altro di appartenenza ignota.
L’avvocato ha confermato che, stando agli esiti del tracciamento genetico, solo il DNA della vittima è completo, mentre le altre due impronte genetiche, stranamente, sono parziali, l’una, quella attribuita a Bossetti, priva del DNA mitocondriale, l’altra priva di quello nucleare.
I giudici hanno sempre ritenuto che, per la posizione “sensibile” della traccia corrispondente al DNA di Bossetti e più ancora per il fatto che sia “mescolata” al DNA della vittima, solo l’assassino possa averla rilasciata.
La difesa continua ad essere convinta – e proprio per questo seguita tenacemente a chiedere una ripetizione dell’analisi genetica – che le anomalie nel DNA attribuito al suo assistito, sommate a quelle presenti nell’altro DNA sconosciuto a esso mischiato, dimostrino la scarsa affidabilità del campione analizzato, inficiando il risultato ottenuto.
Ciò sembra ragionevole anche alla luce delle condizioni molto degradate delle tracce, trovate sugli indumenti di un cadavere rimasto per mesi all’aperto, esposto alle intemperie e trasformato dagli effetti della putrefazione.
La difesa lamenta anche numerose violazioni dei protocollo di tracciamento da parte del laboratorio che ha svolto l’analisi.
Che cosa dice la scienza in merito all’analisi delle tracce “miste” di DNA?
Abbiamo recuperato questo articolo, intitolato “Il test del DNA non è infallibile”,(leggi qui). Esso risale a diversi anni dopo al test che ha portato all’ estrazione del profilo genetico di Massimo Bossetti dagli abiti della vittima, e quindi appartiene ad uno stadio certamente più evoluto delle metodiche di tracciamento del DNA.
Il post, scritto dalla giornalista scientifica Faye Flam, fa una panoramica sull’uso giudiziario dei test di rilevazione del DNA e, con riguardo alle tracce miste, così si esprime “Il DNA è affidabile quando viene analizzato correttamente, e quando il campione è abbastanza ampio e proviene da una persona sola. Semplificando molto, il sistema usato tradizionalmente prevede l’analisi di 13 parti diverse dei cromosomi, in cui il codice genetico tende a ripetersi in brevi sequenze. Il numero di queste sequenze in ognuno di questi punti varia da persona a persona. Se due campioni hanno lo stesso numero di sequenze in tutti e 13 i punti, la possibilità che provengano da persone diverse è una su diversi miliardi. Quando il DNA in un campione è misto, però, le cose cambiano e trarre conclusioni diventa più complicato. Il rapporto cita diversi casi sorprendenti, tra cui quello di un procuratore che negli Stati Uniti aveva detto alla giuria che le possibilità di un errore in una corrispondenza del DNA erano una su 1,1 miliardi. Da un’analisi successiva delle prove era però emerso che la possibilità era «più vicina a essere una su due»”. Secondo il genetista molecolare Greg Hampikian la cattiva analisi della miscela di DNA fu la causa dell’ingiusta condanna di un uomo chiamato Kerry Robinson nello stato della Georgia. Una donna che era stata stuprata da diversi uomini identificò uno dei sospettati, a cui venne poi offerto un accordo nel caso avesse a sua volta identificato i suoi complici. Dopo aver fatto diverse ipotesi l’uomo nominò Robinson. Nonostante la vittima non fosse riuscita a identificarlo, Robinson fu condannato e finì in carcere sulla base della prova del DNA. Hampikian, che lavora come volontario a capo dell’Idaho Innocence Project, esaminò il DNA concludendo che non solo non condannava Robinson, ma lo scagionava. Hampikian decise di usare il caso per dimostrare una tesi più ampia, e portò gli stessi campioni di DNA a un altro laboratorio chiedendo a 17 esperti diversi di analizzarli. Solo uno di loro concluse che il DNA avrebbe potuto essere di Robinson, mentre tutti gli altri dissero che l’analisi non era risolutiva o lo scagionava.”
Come è facile constatare attraverso una ricerca in rete, i contributi, scientifici e divulgativi, che predicano cautela nel trarre conclusioni perentorie dai risultati dell’analisi del DNA sono innumerevoli.
Per tutti questi motivi la giustizia statunitense, ma anche quella di altre nazioni straniere, fino a che la scienza non arriverà a sufficienti certezze sul tempo di deposito del DNA, e sul modo con cui è stato rilasciato, diretto o per trasporto, attualmente considera (vedi la voce touch DNA nella versione inglese di Wikipedia, corredata da numerose citazioni) le impronte di DNA un indizio (quello che nel diritto italiano si chiama“presunzione”, come ho riferito in questo post) che da solo non può supportare una condanna, ma deve essere corroborato da altri indizi e prove convergenti.
En passant ricordiamo che nel caso di Massimo Bossetti (vedi post citato sopra) mancano del tutto, ed anzi esistono indizi contrari.
Concludo con una considerazione che spero faccia ulteriormente riflettere.
Prendere per “oro colato” il ritrovamento di una traccia di DNA su una scena criminis potrebbe rivelarsi un insperato regalo ai delinquenti.
Sarà forse una deformazione che mi viene dall’aver scritto gialli e thriller, ma nel momento in cui un profilo genetico estrapolato su una scena criminis apre ipso facto le porte della galera alla persona a cui risulta appartenere, un assassino ha un modo sicuro per farla franca: commettere il delitto con guanti opportunamente sporcati del DNA di un innocente, cospargendone ad arte il luogo del crimine.
Per l’ampia disponibilità intorno a noi di simili tracce, non è impresa impossibile procurarsi un campione di saliva, o di sudore di chicchessia a sua insaputa, e poi trasferirlo altrove…
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