Quando abbiamo chiuso il numero in edicola, non era ancora esploso il caso Report sulla pandemia e sulla terza dose, ma non era difficile intuire che un conto è toccare Astrazeneca, uscito dal piano vaccinale, e un altro parlare degli altri… Leggere per credere
La trasmissione Report ha finalmente fatto un po’ di luce sulle 11,5 milioni di dosi di Astrazeneca inoculate agli italiani: sui morti con correlazione certa e sul fatto che il decesso della 18enne Camilla Canepa vaccinata a fine maggio si potesse evitare semplicemente non facendo con quel prodotto gli Open Day riservati ai giovani. Verrebbe da dire, a proposito dell’ottimo programma, meglio tardi che mai, dato che su questa storia era inspiegabilmente calato il silenzio, addirittura con plurimi articoli di giornale che insinuavano, senza alcuna ragione, che la ragazza fosse già malata. E che dunque il vaccino non avesse alcuna colpa.
Eppure, su queste colonne, lo avevamo scritto subito, nel Momento dei primi di giugno, come tutti sapessero tutto: ricordando i consensi informati cambiati dalla sera alla mattina, addirittura l’indicazione dell’età per cui era raccomandato, prima solo agli under 55, poi agli over. E ancora l’indicazione successivamente scomparsa del punto 10 “non è possibile al momento prevedere danni a lunga distanza”; il foglio illustrativo del primo aprile che parlava di casi di trombosi su donne sotto i 55 anni con la dicitura “alcuni casi hanno avuto esito fatale”; il consenso informato del 12 aprile che riportava testualmente di trombosi: “la maggior parte di questi casi si è verificata nei primi quattordici giorni successivi alla vaccinazione e si è verificata principalmente in donne sotto i 60 anni di età. In alcuni casi questa condizione ha provocato morte”. Insomma era tutto nero su bianco ben prima che Camilla fosse inoculata, nonostante i soliti esperti in tv rassicurassero sulla sicurezza del suddetto vaccino: anche se oggi, dopo l’eco della puntata di Report, gli stessi esperti invitano gli italiani a rivolgere le proprie domande ad AstraZeneca, perché loro non ne sanno niente. Facile no?
E sì che non c’era nemmeno bisogno di essere virologi per leggere quelle carte. Erano documenti ufficiali. Non serviva essere la Spectre: ma se i giornalisti fanno soltanto l’eco del governo, difficilmente la popolazione viene informata. Meno male che è arrivato Report, anche se vien da dire che oggi sia addirittura troppo facile “sparare” su Astrazeneca, essendo il prodotto uscito dal piano vaccinale italiano, giova ripeterlo, dopo 11,5 milioni di dosi inoculate. Il piano vaccinale prosegue infatti dritto per la sua strada, senza un accenno di risarcimento per le vittime, senza un’autocritica o una scusa.
E a Palazzo si premono i novax verso un obbligo di fatto all’iniezione, ben sapendo che alla lunga cederanno alla durissima politica dei tamponi per il green pass e che le loro manifestazioni saranno tollerate solo fino a quando non si riterrà necessario aprire gli idranti o verificare la forza ondulatoria dei furgoni della polizia. E questo ci porta inevitabilmente agli inizi del mese di agosto, quando vedendo ciò che accadeva altrove, Israele in primis, vi avvisammo che presto, nonostante i tentennamenti di facciata, saremmo arrivati alla terza dose per tutti. Con un fine pandemia mai. Oggi siamo ai nastri di partenza. Sicchè quando vedremo la luce, e se la vedremo, non lo sa più nessuno.
Sappiamo però che la pandemia è strettamente connessa con l’economia e che per quel che ci riguarda, dove non ci ucciderà il virus ci penserà il lavoro. In attesa di ricevere i famigerati prestiti europei (perché per la gran parte, lo si ricordi bene, di questo si tratta) la nota Quota 100 infatti salta e a breve si andrà in pensione a 67 anni. Passi. Senonché Maria Cristina Pisani, presidente del Cng, il Consiglio nazionale dei giovani, organo consultivo del governo, ha fatto una serie di richieste all’esecutivo per evitare che i trentenni d’oggi possano andare in pensione alla bellezza di 75 anni. Per goderseli giusto un lustro, data l’età media degli italiani e quella nella quale il Covid è letale: ovvero tra gli 80 e gli 86 anni. Ad arrivarci a quell’età, va da sé, e senza acciacchi: ma pagare contributi per cinquant’anni per vedersene restituire se va bene per una decina suona anche ad un inguaribile ottimista come un’evidente presa per i fondelli.
L’Inps deve essere dunque davvero alla canna del gas. Non sappiamo se ricordate il bonus dei 600 euro per lockdown che l’Istituto prese a chiedere indietro a molti senza fornire alcuna spiegazione, però, dopo lo spauracchio delle quarantene non pagate retroattivamente e rientrato all’ultimo, un nuovo campanello d’allarme si è acceso in Lombardia. Scrive la Provincia Pavese: “Dal 14 ottobre l’Inps ha disposto la sospensione della pensione di invalidità parziale (dal 75 al 99%) per i disabili di età compresa tra i 18 e i 67 anni con un qualunque tipo di reddito da lavoro, anche minimo. Una decisione che, sul piano concreto e immediato… sta scatenando la protesta delle associazioni che si occupano di disabilità e malattie rare. Di fatto, secondo le associazioni che si occupano di invalidità, si costringeranno le persone con disabilità a scegliere se lavorare, e quindi perdere l’assegno di invalidità, o rinunciare a qualsiasi attività per ricevere mensilmente un sussidio che da solo non basta per vivere”. Forse è solo un errore. O forse – insieme all’esplosivo rincaro di bollette, materie prime, carburanti e consumi – è il sintomo di una pandemia minore, quella che ci aspetta alla fine dello Stato di emergenza: la bancarotta.
(Dal Momento di Cronaca Vera, in edicola dal 2 novembre 2021)