Ancora assolta, e stavolta per entrambe le accuse di omicidio, l’infermiera di Lugo Daniela Poggiali, le cui foto sorridente davanti ad un cadavere indignarono l’Italia. E generarono un equivoco: non uccise mai nessuno. Ecco la sua vera storia
BOLOGNA- Ora sarebbe il caso di lasciarla vivere in pace. Daniela Poggiali, l’infermiera di Lugo che indignò l’Italia per le sue foto sorridenti davanti ad un cadavere, aveva forse una superficiale considerazione della dignità delle persone. Certamente sbagliò nel fare quegli scatti. Però non uccise nessuno. È passata sotto le forche caudine di oltre mille giorni di cella, protestandosi sempre innocente e, record tra i record, è stata assolta tre volte dopo che la Cassazione aveva insistito nell’annullare le sentenze che la proscioglievano, un caso rarissimo. Stavolta però la donna è stata assolta dalla Corte d’Assise d’Appello per entrambi i delitti di cui era accusata, quelli dei pazienti Rosa Calderoni e Massimo Montanari. Per i giudici “il fatto non sussiste”.
LA STORIA
Il caso esplose nel 2014, dopo la morte della signora Rosa, 78 anni, l’8 aprile. Quando la indagarono emersero le foto raccapriccianti scattatele da una seconda persona, mentre sorrideva davanti da un cadavere. Venne fuori che l’anziana aveva in corpo una percentuale insolita di cloruro di potassio. Secondo le accuse il potassio alla paziente era stato inoculato dall’infermiera, l’ennesimo caso di Angeli della morte, i serial killer della corsia. Non solo, l’indagine mise in luce che quando Daniela era di turno erano morte nel suo reparto 38 persone e gli inquirenti cercavano di far luce su dieci decessi. Da subito lei si protestò innocente. L’arrestarono. E quando presentò istanza di scarcerazione, il Riesame la liquidò definendola una “dispensatrice di morte” e un “pericolo pubblico” dedita ad “un’opera sistemica di eliminazione di ricoverati”.
Al processo di Ravenna le diedero l’ergastolo. Il presidente della Corte d’Assise Corrado Schiaretti, nel motivare la condanna, si spinse a dipingere la donna come «fredda, intelligente e spietata. Nemmeno lei sa quanti pazienti ha ucciso». Radiata dall’albo, alla fine i pazienti morti in maniera sospetta si ridussero però a due, gli altri casi finirono archiviati. Le prove, annunciate sui media come granitiche, andarono presto sgonfiandosi. In appello la morte di Rosa Calderoni venne considerata naturale e l’infermiera fu assolta. La scarcerarono dopo 1003 giorni di prigione. L’infermiera si scusò per le immagini: «So che non è giustificabile, ma quelle foto sono state fatte in un momento di stress… Una cavolata… non lo so. Difficile spiegare… ma per noi era un modo per esorcizzare il dolore e la morte con cui ci confrontiamo ogni giorno. Tutti gli istanti». Ma la Procura non si arrese. La Cassazione annullò la sentenza, ma in appello bis, Daniela finì nuovamente assolta. Difficile davvero, per chi conosce i meandri della cronaca nera, se l’imputato non ha prove schiaccianti della propria innocenza.
ANCORA IN CELLA
Ma già allora si mormorava di una nuova indagine, per la seconda morte sospetta, quella di Massimo Montanari, di 94 anni, ex datore di lavoro dell’ex compagno dell’infermiera. Fu lei stessa a raccontarlo, precisando però che «non ho ucciso nessuno. Non ho iniettato potassio nemmeno al paziente Massimo Montanari. Sono fiduciosa, perché non può essere provato il contrario. Io non sono “l’Angelo della morte”. Sono felice di avere rivisto i filari di pesco dalla mia casa di Giovecca». Invece, in abbreviato, le diedero 30 anni. Tornò in cella. La Cassazione annullò nuovamente l’assoluzione per la morte di Rosa Calderoni, ordinando un appello ter, che è stato riunito a quello per Montanari: assolta. Tre volte volte, anzi quattro: tre per Rosa e una per Massimo.
Finalmente liberata, è tornata a Forlì. All’Ansa ha detto: «Adesso voglio pensare un po’ a me stessa, godermi la mia famiglia. Poi mi piacerebbe, un domani, tornare a fare il mio lavoro. La speranza è sempre quella. Questa vicenda mi ha portato del dolore, ma non mi ha tolto la convinzione che io sia una brava infermiera e che possa fare di nuovo il mio lavoro, come facevo prima. Mi sto riappropriando pian piano della mia libertà e di quel sapore incredibile che ha la libertà dopo più di dieci mesi chiusa in un carcere. Ringrazio sempre la buona giustizia. Ho avuto modo di tastarla a Bologna, di averne una prova. Mi dispiace solo che se questa vicenda fosse stata gestita in maniera diversa dall’Asl e dalla Procura di Ravenna a quest’ora non sarei stata dipinta come il serial killer e forse non sarei neanche finita a processo in tribunale. Però confido sempre nella buona giustizia e quindi confido che il giudice faccia delle buone motivazioni, affinché si possa mettere fine a questa vicenda». Dopo quattro assoluzioni, è la speranza di tutti.